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MANIFESTO delle OFFICINE KULTURALI AURUNKE Drammaturgia 2000. Oggi un discorso sul teatro non può non partire, ancora una volta, da una critica radicale della società spettacolarizzante che, anche a fronte di un trentennio di percorsi critici più o meno decentrati, sembra inglobare tradizionalmente tutto e fagocitare quindi la scena, vecchia o nuova che sia ed uniformare lo scenario in un continuum urbana visualizzazione di un mall con vetrine teatrali multiple senza soluzione di continuità alludendo a molte possibilità significanti ma restando in una omologazione di fondo che è quella di un teatro che nonostante le oleografiche e periodiche rivoluzioni storiografiche si presenta sempre di più come un supermercato ipnotizzante in cui la MERCE-TEATRO finisce per ipostatizzarsi nella propria autocontemplazione: immobilizzazione sofisticata e/o consumo regionalpopolare.
Il teatro delle riletture, del comico regressivo, dell’usa e getta, dei laboratori tecnici, del turismo comparato, della presenza ad ogni costo, della professionalità come routine, queste ed altre forme di teatro istituzionalizzato sono la classe morta di un teatro che, come proiezione di un pensiero analogico, è funzionale ad una ideologia che consiste in ultima analisi, nella negazione della VITA REALE, con le sue frammentazioni strumentali e del confronto con la complessità del mondo con i suoi spazi critici, le sue virtualizzazioni, la sua crescente complessità.
E’ difficile sfuggire al TEATRO-MERCE-SPETTACOLISTA esso si è ben radicato nell’immaginario più o meno collettivo perché si presenta come un insieme organicamente articolato, sia dal punto di vista economico che da quello ideologico, essendo capace di rispondere alla domanda di teatro anche in forme di sofisticazioni che certamente si configurano come una specie di finto limite-avanguardie più o meno integrate in corrispondenza con la strategia post-moderna di una unificazione della spettacolarità: ciò che costituisce il luna-park globale, il teatro globale.
E’ dunque la ricerca di un varco, di un teatro in cui fondamentalmente si riconosca alla comunicazione teatrale una sua specificità che deve realizzarsi senza alcuna possibilità di strutturarsi come orizzonte di reificazione di un senso che non è pertinente a nessuna crisi ed a nessuna contraddizione della prassi.
Un teatro, dunque, che deve deve trovare una combinatoria che renda la rappresentazione sempre più lontana dai reificarsi in una spettacolarità strumentale che, certo, ha i suoi referenti storici teoricamente stabilizzati ed antropologicamente giustificati: tutto ciò che dimostra di essere nient’altro che un vittoria ideologica diretta alla resa finale, alla fine della storia, come si sente dire, che è poi la vittoria del TEATRO-MERCE-SPETTACOLO.
La malattia di Artaud - ad esempio - (perenne filo rosso snodato nell’anima europea) e la crisi possono essere pertinenti ad una ipotesi di teatro possibile. È la gioia di una forma di conoscenza che il teatro può e deve costruire.
Solo il recupero di una modernità che rifiuti l’uniformità di una scena reificata può dare al teatro il recupero della sua specifità comunicativa.
Dal ventre di una cultura teatrale quale è quella napoletana, ad esempio, più che mai esistono discorsi che vanno in questa direzione.
Si tratta di vedere con occhi diversi certi patrimoni drammaturgici al di sotto della loro banalizzazione e della loro spettacolarizzazione normalizzante.
Si tratta anche di vedere come la poesia possa eliminare la spettacolarità e dare al teatro quella dimensione di autenticità di cui parlava Artaud.
Una salvezza, significante, quindi, quella della trasmutazione poesia-teatro e viceversa che, nell’assumere in tutte le sue valenze la coscienza della crisi, della malattia, della sovversione, continua nella direzione di un teatro possibile.
Il teatro oggi tende sempre più a diventare il museo di se stesso, come gran parte dell’arte del resto, perché nel reale non si riesce più a distinguere ciò che è effettivamente reale, dato che l’immagine tende alla sparizione insieme al reale.
Pasolini ci ha fatto capire come può essere possibile parlare del reale e come cambia il linguaggio delle cose: come i professori che in certe mattinate non hanno voglia di fare lezione e parlano d’altro e fanno della comunicazione lo scambio.
Ovvero uscire fuori dal teatro come taluorno per approdare alla violenza di quella scrittura che Enzo Moscato definisce connivente con l’amore, rassomigliante all’amore.
E l’altra dimensione, come spazio di conquista della scena non reificata, è con le realtà multiple che nascono dai nuovi linguaggi della mutazione comunicativa. Si tratta di un nomadismo teatrale teso alla costruzione di una innovata specificità comunicativa teatrale anticipata dai glaciali tanghi di Martone degli anni settanta. È quindi teatro di parola, teatro della complessità, del soggetto e della realtà - reale o virtuale che sia - oppure di impianti naturalistici che coraggiosamente si tradiscono per le loro degenerazioni che sono corrispondenti all’erosione del teatro-merce-spettacolo.
Erosione che a Napoli è ormai avviata da un decennio.
Teatro, allora, di una autentica antropologia che drammaturgicamente si tende a rendere conto di quello che sta effettivamente accadendo, rifiutando la consolazione, la rassicurazione e la fuga.
(5/2000)