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Nella ipotesi di scrittura di un testo linguistico, fondato sulle azioni fisiche e finalizzato al rapporto di collaborazione con la scena, lo scrittore scrive per l’attore/danzatore in funzione dell’atto totale che questi dovrà compiere. Conseguentemente  è necessario che il drammaturgo conosca - per averlo sperimentato personalmente -, l’autogestione del processo organico che chiama in causa la parte materiale e immateriale  dell’atto totale dell’attore/danzatore nella prospettiva della produzione delle forme organiche.  Le forme sono organiche in quanto generate da un processo biochimico autogestito che le rende vive,  credibili, affascinanti. Traggono origine da uno stimolo esterno, nascono nel corpo, sono guidate dalla mente, conquistano il corpo e  la mente dello spettatore.

L’attore/danzatore, per il quale scrive il drammaturgo che applica il lavoro sulle azioni fisiche alla scrittura di un testo linguistico, non si pone il problema d’incarnare il personaggio. Non riorganizza di volta in volta un bagaglio tecnico-emotivo di momenti vissuti nella vita reale o immaginaria. Il suo lavoro - nella consapevolezza del valore extraquotidiano e del livello pre-espressivo del linguaggio teatrale - sui quali non indugio rinviando ai preziosi e ripetuti contributi di Eugenio Barba -, ha inizio con la elaborazione di una struttura di azioni fisiche circostanziate necessaria ad attivare il processo in questione che favorisce l’ingresso nella dimensione della soglia. In questa dimensione  l’attore/danzatore si perde e si ritrova in continuazione. La produzione della materia invadente sottoposta alla tensione guidata produce un effetto destabilizzante, genera il caos e trasforma la carne in corpo glorioso (Artaud).

Il processo organico può essere sintetizzato con il grafo seguente.

Stimolo esterno

Impulso interno.

Azioni fisiche con il portato
di ritmo e di energia

Specificazioni di qualità delle azioni fisiche.

Controllo e perfezionamento del processo associativo.

Ampliamento del campo percettivo attraverso la dilatazione del corpo e della mente.

Entrata nella dimensione della soglia o cesura.

Produzione della materia invadente che destabilizza
e genera il caos.

Produzione delle forme organiche.

Montaggio delle azioni fisiche
in funzione
della comunicazione chiara e/o della comunicazione oscura
di 
pensieri, emozioni, sentimenti, percezioni, sensazioni,  desideri, progetti, utopie, misteri, valori indicibili, presenze impalpabili e invisibili
con il supporto 
di suoni articolati o inarticolati fino al canto,
di sinestesie fino alla spazialità della danza.

Il controllo del processo associativo e l’arricchimento delle specificazioni di qualità dell’azione fisica sono passaggi importanti per alimentare e tenere in vita l’azione fisica e per renderla credibile. A questo proposito è opportuno riportare alcuni frammenti della Lettera all’attore D. di Eugenio Barba: “Non credo in quello che fai. Il tuo corpo dice solo una cosa: obbedisco ad un ordine ricevuto dall’esterno. I tuoi nervi, la tua colonna vertebrale, il tuo cervello non sono impegnati, e con una attività epidermica vuoi farmi credere che ogni azione è vitale per te. Tu stesso non avverti l’importanza di quello di cui vuoi rendere partecipe lo spettatore. […] Tu rappresenti la collettività in questo luogo, con le umiliazioni che hai subito, con il tuo cinismo che è autodifesa e il tuo ottimismo che è irresponsabilità, con il tuo senso di colpa e il tuo bisogno di amore, con la tua nostalgia per un paradiso perduto, nascosto nel passato, nell’infanzia, nel calore di un essere che ti faceva dimenticare l’angoscia. Ogni persona presente in questa sala sarà scossa se tu effettuerai, durante la rappresentazione, un ritorno a queste origini, a questo terreno comune dell’esperienza individuale, a questa patria che si cela. Questo è il legame che ti unisce agli altri, il tesoro sepolto nel più profondo di noi stessi, mai messo allo scoperto, perché è il nostro conforto, perché fa male a toccarlo”. Sulla base di tali considerazioni, mi sembra che si possa dire che  il lavoro sulle azioni fisiche messe in preventivo dal drammaturgo in funzione dell’autogestione del processo organico dell’attore/danzatore serva ad utilizzare il patrimonio nascosto in ogni essere umano e a produrre energie vitali nello spazio scenico.

Lloyd Newson sostiene che nella maggior parte degli spettacoli di danza o di teatro-danza la vita non c’è. C’è la danza e c’è la forma, ma quando il rigore della forma prodotto dai processi di astrazione non è accompagnato da una carica energetica coinvolgente e seduttiva – presente invece nelle forme organiche prodotte con i processi organici -, si ottiene l’effetto boomerang del respingimento. A un idraulico non  chiediamo di avere la capacità di seduzione, ma di essere abile e onesto nel lavoro. La richiesta è d’obbligo quando ci troviamo di fronte a un artista che offre la sua opera.

Non si può tuttavia affermare in assoluto che il processo di astrazione non possa generare uno spettacolo affascinante. Basti pensare al teatro orientale che nella codificazione trova il suo punto di forza. Nel teatro occidentale mi sembra che il rischio di fallimento, soprattutto nel campo della danza, sia invece molto frequente l’astrazione paga un forte debito alla ragione, agli stilemi coreografici legati a contenuti intimistici, alla ripetizione di forme tendenzialmente estetizzanti, alla centralità degli arti inferiori e superiori a sottovalutazione del tronco, in grande sintesi alla mancanza di energia vitale che di solito rende lo spettacolo stereotipato e algido.  Le persone, si sa, non vanno a teatro per essere informate, educate, acculturate, ancor meno per assistere a elucubrazioni intellettuali o a manipolazioni estetiche, ma piuttosto per provare emozioni, stupori e sentimenti, in altre parole per provare piacere. Quando il piacere non c’è, cade una delle obiettivi fondamentali del teatro: cade il teatro.

Le tecniche sono importanti, ma a volte non bastano. Le tecniche sono comunque strumenti, non finalità della creazione artistica. Il fascino, che va a braccetto con la godibilità e la credibilità dell’opera,  fa parte della richiesta implicita dello spettatore che acquista il biglietto. Se fascinazione e credibilità vacillano, vacilla - per dirla brutalmente - l’utenza.

L’unica cosa che non vedo vacillare nelle Rassegne teatrali è l’edonismo che ha sostituito il piacere del corpo e che determina il formalismo algido di chi non ha trovato il modo per comunicare quello che voleva comunicare. C’è logos, ma non c’è mèlos, non c’è eros, non c’è amore. C’è l’involucro, ma non c’è la sostanza sensibile, capace di suscitare stupori ed emozioni. Vedo molti danzatori/attori e  pochi uomini, molte aure poetiche e pochi comportamenti poetici. Assisto all’uso di nuove tecnologie non suffragate  dal principio di relazione e del principio di necessità che vede l’uomo protagonista dei suoi bisogni. Vedo disattenzione profonda nei confronti della dualità della natura e della cultura umana e verso il movimento della creazione artistica che va dal concreto all’astratto, dal materiale all’immateriale, dal fare al dire, non viceversa. Mi trovo di fronte a spine dorsali dure come bastoni, a una respirazione a bocca aperta che ostacola l’accensione delle pareti interne del corpo, a maschere facciali fisse che vengono esibite per l’intera durata dello spettacolo. Non vedo caos, ma fissità emotiva che nega la comunicazione. Non vedo autonomia creativa, ma dipendenza di un soggetto da un altro soggetto. Non vedo forme credibili, ma clichès prodotti dalle convenzioni imperanti.

E’ ovvio, neppure il processo organico è in grado di offrire la certezza dei risultati artistici, proprio perché si tratta di un processo e non di una formula o di una ricetta. Pur disponendo di una forte carica aurorale, il processo organico non garantisce in assolto la produzione delle forme organiche. Ha bisogno di contare sulla individualità dell’artista, su una specifica azione formativa, su un allenamento assiduo, ma dipende anche da un quid d’imponderabile che l’artista ha o non ha, ed è il suo talento. Offre credenziali di maggiore credibilità ed efficacia perché consente di entrare in una specie di tomba dove l’infinito del possibile nasce dalla morte del mondo logico (Bataille). Il logos scorre nelle viscere, per dirla con Rella e con Testori, e quando ci accade di  dimenticarlo, scorgiamo alle nostre spalle “una catena luttuosa  in cui  si inanellano i corpi e le passioni sacrificate” (Rella).

Leggendo  i programmi e assistendo alle proposte di alcune rassegne , mi sono trovato di fronte a una catena luttuosa di “spettacoli sbigottiti” senza sbigottimento, di “sensualità ammiccante e travolgente”  senza stupore e coinvolgimento,  di offerte “travolgenti” senza partecipazione emotiva, di “corpi sopraffatti da un ardore senza sbocchi” sofferenti di sopraffazione del dato; di “racconti immorali a caccia di forme e di figure” nel presupposto che “attraverso la forma si possa penetrare nella sostanza”; d’idee bizzarre come “la propriocezione, o sesto senso: flusso sensorio continuo ma inconscio proveniente dalle parti mobili del nostro corpo, che ne controlla  e ne adatta di continuo la posizione, il tono e il movimento in modo che a noi rimane nascosto perché automatico ed inconscio”, responsabile di "trivelli/rovelli/vortici/avvitamenti con relativa perdita del sé corporeo”.

Il lavoro critico mi ha posto davanti a  domande ambiziose  come questa: “Che cosa succede ad un corpo immerso nel quotidiano scorrere del tempo in un ambiente asettico e invaso dalla massiccia presenza del suono?”. Per fortuna,  alla domanda seguiva la risposta che io non avrei saputo dare: “i corpi si misurano con lo stare dentro una rappresentazione, liberi di aderire a questo meccanismo oppure voltargli le spalle”. Molti spettacoli mi  hanno puntualmente spinto a voltargli le spalle per avermi informato sui  “nobili recessi del cuore”, sui “vasti sepolcri della natura”, sugli “uragani primordiali” e sul “caos esistenziale”  in  petti  compressi e doloranti, posti come artefatti in teche cimiteriali, calcificate, della disfatta finale, dopo “improvvisi salti emotivi”, dopo  “l’incertezza del  proprio destino legato alla posizione distesa del corpo” in una sala chirurgica “dove tutto si subisce in silenzio”, a significazione non di una ricerca della vita nella morte, ma come accumulo di reperti archeologici che esplicitano un discorso sulla “carne della nostra esistenza, del nostro dolore, del nostro conoscere”. Labirinti di parole in libertà, legate a un progetto di scorporizzazione del teatro, legittimo come ogni altro progetto di  scrittura drammaturgia o di scrittura scenica, ma che fa registrare un risultato non auspicabile: far sentire inutile lo spettatore.

Non sono contrario a priori ad alcuna forma di teatro, anche codificato, ma ritengo che il teatro fondato sulle azioni fisiche e sui processi organici sia più adatto ai paesi occidentali, potendo contare sull’apporto di corpi erotici dotati di distacco e di tensione, e sulle sinestesie necessarie a suscitare interesse e partecipazione emotiva. Insomma, la questione di fondo è sempre la stessa: lo spettacolo o conquista o non conquista: in gioco sono la mente e il cuore dello spettatore.