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Testo in un certo senso cardine della pur vasta ed importante produzione drammaturgica di quel Ronald Harwood che nella Londra anni cinquanta,  dopo gli studi alla Royal Academy of Dramatics Arts, entra a far parte della Shakespeare Company di Sir Donald Wolfit di cui diventa “camerista”, il 'servo di scena', appunto, del titolo. Cardine e dunque anche epìtome, nel senso più profondo del termine, in quanto, anche oltre i pur intriganti riferimenti autobiografici,  riesce a rimescolare e compendiare, in un gioco continuo di rimandi e suggestioni, non solo i continui suggerimenti meta-teatrali che intridono i drammi del Bardo, in una oscillazione quasi insistita tra alto e basso, tra tragedia e 'comoedia', ma soprattutto i codici esistenziali nascosti, ed insieme svelati e rivalutati, nella sapienza teatrale. Tra un “Macbeth” e un “Re Lear”, passando per un “Riccardo III”, per citare solo i riferimenti più espliciti della drammaturgia, perchè <<la vita è appena un'ombra, che cammina come un povero attore, che si sgonfia, che si inquieta, per quell'ora, in scena, e non ne parla più nessuno, dopo: è una storia, e uno scemo la racconta, che è piena di rumore, e di furore, che però, poi, significa niente.>> Drammaturgia importante, profonda e pluri-stratificata, messa in scena tra le Compagnie Ospiti al Teatro della Corte di Genova dal 5 al 10 febbraio, nella traduzione quasi confidente di Masolino d'Amico. La lettura che ne dà Franco Branciaroli, nella riproposizione scenica di cui è, molto bravo in entrambe le prestazioni, regista e protagonista, sa cogliere con precisione e condivisione questi aspetti, magari meno evidenti ma, credo, intrinsecamente strutturali e coerenti con la scrittura di Ronald Harwood. A partire dalla scenografia di Margherita Palli, sorta di stratificazione orrizontale a scena aperta dei vari livelli di significazione, la messa in scena di Branciaroli è infatti tutta un reciproco richiamarsi e leggittimarsi di vita e teatro, ove la vita alimenta il teatro ed il teatro ne decifra i codici di senso, in una apparente confusione da cui il vecchio attore ed i suoi compagni traggono il senso di ciò che fanno sulle tavole del palcoscenico e danno senso a ciò che fanno nella vita. Centro del complesso movimento, prima drammaturgico e poi scenico, è appunto il servo di scena, un bravissimo Tommaso Cardarelli, che riempie di sangue e riscatto un personaggio sospeso nel limbo che sta tra camerini e palcoscenico, tra la vita e il teatro. Quando Sir Ronald, questa sorta di Re Lear anch'esso illuso della sua indispensabilità, muore, al termine di una prima di quella stessa tragedia nella tempesta della guerra e dei bomardamenti, al termine cioè di una recita voluta a tutti costi proprio da lui, è il suo camerista Norman l'unico a veramente disperarsi, tra rivendicazioni ed abbandoni, perchè quella morte, a metà tra scena e realtà, è la cesura del suo stesso mondo. La scrittura scenica, grazie alla mano forte di Branciaroli, riesce dunque a mantenersi sempre al livello della scrittura drammaturgica, tra corripondenze shakespeariane e suggestioni contemporanee, amalgamate entrambe da quell'ironia, talora amara e rabbiosa talora leggera e anche comica, in un registro in continua evoluzione che costitisce la cifra del miglior Ronald Harwood e che la sapienza degli attori sa cogliere e enfatizzare. Tutti, direi, da Lisa Galantini a Melania Giglio, da Valentina Violo a Daniele Griggio e Giorgio Lanza, si muovono intorno ai due protagonisti con bravura, senso del tempo e sapiente uso della mimica corporea. Un'ultima citazione per le luci di Gigi Saccomandi. Il pubblico, numeroso, ha apprezzato e più volte richiamato sul proscenio.