Pin It

Marcello Isidori, padre padrone di questo benemerito sito, è nato come me: con più germi del teatro che globuli rossi nel sangue. Gentilmente ospitandomi tra le sue Rubriche, si aspettava da me una totale fedeltà al tema, che è quello del teatro di prosa. Gli ho disobbedito una volta, per occuparmi degli stravizi della Scala: mi ha perdonato, ma mi ha raccomandato di non farlo più.

E invece eccomi qua, a cedere ancora alla tentazione di lasciar perdere il teatro, che confesso interessarmi sempre meno (in misura direttamente proporzionale al disinteresse che il teatro manifesta nei miei confronti). E occuparmi del più comprensivo tema dello spettacolo, del cui il teatro è particella sempre più piccola e rattrappita. In quest’ambito – parlando appunto d’altro – sono stato molto colpito dalla decisione di Nicolas Sarkozy di sopprimere la pubblicità dai programmi della rete televisiva nazionale. L’esperimento è andato male, come hanno sottolineato i fautori della cosidetta anima del commercio: e forse la soppressione decisa da Sarkozy sarà a sua volta soppressa, per un pronto ritorno all’antico andazzo. Ma la “sconfitta” di Sakozy, a pensarci bene, non prova nulla; e induce semmai a una riflessione su certi equilibri dello spettacolo televisivo che tanto invade le nostre abitudini familiari.

Il fatto è che, se non la pubblicità, la “pausa” nella serata TV è tanto necessaria quando il silenzio nella musica, o il quarto d’ora di ricreazione nella mattinata di una scolaresca, o il coffee break in un congresso, o il semplice girare i pollici in una nostra giornata di lavoro. L’identica cosa – in senso spaziale – si può dire della struttura dei nostri appartamenti, dove non esiste più – come una volta – lo spazio morto (anticamera o corridoio) tra una stanza e l’altra, e si passa direttamente da un locale all’altro, in maniera del tutto vincolante e ossessiva. I più vecchiotti tra i telespettatori (quorum ego, ahimè!) ricorderanno certamente il famoso “Intervallo”, onnipresente tra un teleromanzo e un dibattito, tra un documentario e un telequiz: erano tranquille immagini agresti, di pecore pascenti, accompagnate dalla splendida toccata per arpa di Pietro Domenico Paradisi: per certo uno dei brani più universalmente noti di cui la gente ignora il nome dell’autore. Poi, dopo le pecore, le immagini di città, borghi e monumenti d’Italia, a svolgere anche un’utile funzione divulgativa e informativa sulle mille bellezze del nostro Paese. Ma la funzione essenziale di quei brevi inserti era proprio quella cui abbiamo accennato: di offrire una pausa tra una cosa e l’altra: un momento di rilassamento psicologico e mentale, un affrancamento dalle emozioni o dall’impegno culturale accumulati durante una trasmissione, e una preparazione all’item successivo: come lo scioglimento dei muscoli di un atleta tra un esercizio e l’altro, come il respiro di decontrazione di un panista tra l’uno e l’altro brano di un concerto.

Al di là di queste utili indicazioni, che giriamo a Sarkozy nella speranza che egli possa affinarvi le armi per la sua battaglia, il problema va al di là della questione se – come è ovvio – trenta secondi sulla piazza di Siena o sulla parete del Cervino siano meglio dello starnazzare pubblicitario a vantaggio di dentiere invisibili o di regolatori intestinali: il problema riguarda la crescente diffusione – nel linguaggio del nostro spettacolo (teatrale, televisivo, cinematografico) di un horror vacui che toglie il respiro, in un accavallarsi di immagini, ritmi, sequenze mozzafiato, pugni nello stomaco, e voli pindarici che finiscono col farsi ossessivi ed ansiogeni, e che non lasciano spazio non dico alla riflessione, ma neppure all’acquisizione delle emozioni.

Fosse in mio potere, io riproporrei dal piccolo schermo (altra cosa che i più vecchiotti certamente ricordano) la famosa “novella di Albertazzi”: quando il popolarissimo Giorgio sedeva davanti alla telecamera, apriva un libro… e leggeva. Mezz’ora di pace e di tranquillità. Come per una domenica senza automobili.