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Ha debuttato il 16 ottobre, al Teatro “Storchi” di Modena, “Alexis, una tragedia greca”, l’ultimo lavoro dei Motus, che porta a compimento il lungo percorso d’indagine teatrale attraverso il mito di Antigone, sviluppato nei tre contest prelimina-ri “Let the sunshine in”, “Too late”, “Iovadovia”. Una ricognizione nei territori vasti del mito e della riflessione contemporanea sul mito in generale e su quello di Antigone in particolare (oltre a Sofocle insomma, attraverso una rilettura di Brecht, del Living Theatre e di Liliana Cavani del film “I cannibali”), volta a verificare la possibilità che il mito possa essere ancora, se non racconto, almeno valida griglia di lettura per comprendere le dinamiche interne della realtà occidentale e, soprattutto, efficace e concreto reagente politico. Una possibilità, quest’ultima, vissuta come urgente dall’ensemble per far sì che in questa realtà, che poi è la nostra stessa realtà, «l’indignazione si trasformi in azione». Enrico Casagrande e Daniela Nicolò (con in scena Silvia Calderoni, ancora straordinariamente intensa, Vladimir Aleksic, Benno Steinegger, Alexandra Sarantopoulu) hanno esaminato, osservato, filmato questa realtà con autentica e partecipe attenzione, a partire da quanto è accaduto in Grecia negli ultimi anni e, in particolare, riflettendo sul senso dell’uccisione dell’appena quindicenne Alexis Grigoropoulos, avvenuta ad Atene nel dicembre del 2008, da parte della polizia, nel corso dei violenti scontri seguiti alla rivolta degli anarchici e  degli studenti nel quartiere di Exarchia. Causa di quegli scontri la profondissima crisi politica ed economica, che ha investito negli ultimi anni la Grecia con gli esiti che si conoscono e che ancora, probabilmente, non ha esaurito i suoi dolorosi effetti. Una crisi che, a parere di  molti, è sistemica, anticipatrice di ciò che potrà avvenire in molti altri paesi d’Europa e del mondo occidentale. Ma ecco che, se drammaturgicamente sul corpo del giovane Alexis si proietta l’ ombra antica e cruenta del cadavere di Polinice, lasciato insepolto da Creonte affinché sia d’esempio e intimorisca quanti volessero ribellarsi alla legge del potere e di chi lo gestisce ed insegue, diventa necessario domandarsi: chi è oggi Antigone? Dove e come sentirne la voce? In quali valori troverebbe oggi la forza per ribellarsi? E occorre rispondere a questi interrogativi, mettersi in gioco, prendere posizione, schierarsi. Le risposte dei Motus si sviluppano con modalità problematiche e in almeno due direzioni: anzitutto nella dimensione formale di una teatralità che rifiuta di sottomettersi al testo, scontando in questo senso persino il difetto di una certa indeterminatezza (di qui l’entrare e uscire dal testo, l’interrogarsi continuo e meta-teatrale sulle possibilità di rappresentazione e costruzione dello spettacolo, di qui il ricorso alla tecnologia audio /video che moltiplica e distorce i campi d’azione e comunicazione, di qui il tentativo d’inglobare il pubblico nella stessa dinamica dello spettacolo e di presentargli il conto morale e politico di quanto accade nella realtà e sulla scena); e, d’altra parte, nell’individuazione del disagio profondo, valoriale prima che economico, ch’è sotteso alla crisi greca ed alla generale, e generazionale, perdita di una prospettiva sicura per il futuro. Un disagio autentico, autenticamente vissuto dagli autori, che però indebolisce e quasi svuota qualsiasi risposta certa se ci si chiede ancora – come sembra facciano Casagrande e Nicolò (e in questo senso ritorna e sembra pregnante, anche in questo lavoro, la riflessione sulla frustante debolezza della presenza culturale e politica di quella che oggi potrebbe definirsi la generazione dei quarantenni) - se è valsa la pena vivere la vita che si è vissuta, se si è ancora in tempo a mettersi in gioco nella rivolta o, ancora, forse guardando alle più giovani generazioni «quale vita val la pensa di vivere?». Un disagio sordo che si riflette in una prospettiva ideologicamente anarchica, eppure inquieta, incerta: si avverte, ad esempio, l’implicita solitudine dei personaggi, l’impossibilità di attraversare davvero il confine che separa quei personaggi dalle persone degli attori e degli autori, dalle loro esperienze, dal dolore e dalla violenza (anche potenziale) che ne segna la voce, si avverte il desiderio impaziente (che sembra esorcizzare la sfiducia se non l’impotenza) di una dimensione profondamente e sostanzialmente corale della rivolta contro un sistema che ci ingloba e, riempiendoci di parole, ci zittisce.