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Arturo Cirillo è uno tra gli  attori e registi napoletani che ha sempre amato profondamente  Annibale Ruccello. L’autore stabiese, prematuramente scomparso nel 1986, ormai da anni “calca” con successo le scene dei palcoscenici napoletani e italiani, nonostante i lunghi anni di oblio e la poca considerazione ai suoi testi da parte del grande teatro

del passato.  E infatti, oggi il FERDINANDO, con la regia di Cirillo, va in scena sul palco dello storico San Ferdinando di Napoli, dal 20 al 24 marzo, attirando la curiosità dell’intera città e degli ambienti artistici. Dopo la Jennifer ruccelliana, Cirillo diventa anche il Don Catello ferdinandeo, oltre a costruire l’impianto registico dell’intero spettacolo. La prima al San Ferdinando ha accolto numerosi attori, registi e giornalisti, amici e conoscenti della compagnia, studiosi, curiosi e amanti dei testi ruccelliani. Un foltissimo pubblico, partecipe e rumoroso, ha caratterizzato la platea, racchiudendo in un’unica serata la presenza di alcuni degli esponenti più conosciuti del mondo teatrale partenopeo. Il lavoro di Cirillo appare sotto forma di  rilettura, così come riporta la cartella stampa: “un crudele cerimoniale mascherato da dramma borghese”. Il nostro intento non è quello di analizzare questo spettacolo mettendolo a confronto con precedenti, bensì con il testo originale, per comprendere a fondo ciò che Cirillo ha voluto re-inventare, rispettare o modificare, e soprattutto attraverso quali meccanismi ha agito. La lingua, tema fondamentale di questo testo ruccelliano, all’interno della diatriba storico-politica tra italiano e dialetto, simboli rispettivamente della nuova Italia sabauda post unità e della vecchia nobiltà ( tradizione sradicata e innovazione) in questo spettacolo viene relativamente portata alla luce. Donna Clotilde, interpretata da una carnale Monica Piseddu, gioca con le sonorità del dialetto, accentuando e soffermandosi su alcune parole o prolungandone le vocali finali, con esiti fortemente comici e significativi. Tutto lo spettacolo  presenta una buona costruzione scenica, in cui alcuni elementi originari vengono rivisti in maniera interessante:  la decadenza è dettata da un lampadario poggiato  a terra e poi issato successivamente, il segreto  e” l’origliare” vengono esplicitati sulla scena, eliminando le porte dell’idea ruccelliana, ma mostrando  ciò che si immaginava tra le righe del testo. Affiorano, quindi, dal  chiaroscuro del fondo, i volti morbosamente curiosi dei personaggi, si sdoppiano le immagini tra ciò che succede sul proscenio e ciò che avviene nelle altre stanze, ambienti mai visibili nelle didascalie ruccelliane. Ciò che non si deve vedere, ma che Ruccello rendeva sottilmente interpretabile dallo spettatore o dal lettore acuto, in questo spettacolo viene mostrato.  A volte anche esageratamente. L’eccessiva sensualità, a tratti volgarizzata e sguaiata, di Donna Gesualda, interpretata da Sabrina Scuccimarra, non rispetta il personaggio ruccelliano che invece subisce una lenta evoluzione all’interno del testo, trasformando l’immagine di un’apparente pacata zitella in quella di una manipolatrice omicida. Tutti i personaggi subiscono delle evoluzioni e il motore scatenante di queste trasformazioni è appunto Ferdinando. Il cardine degli amori nascosti, dei rapporti morbosi e sporchi, delle invidie e degli odi, delle solitudini, dei segreti è il ragazzino, finto erede di Donna Clotilde. Ogni personaggio instaura con lui un rapporto d’amore fisico che attraversa la pedofilia, la pederastia, i rapporti carnali, il mascheramento, l’omosessualità, facendo esplodere tutto ciò che era rimasto nascosto fino a quel momento. Il nuovo che sconvolge il vecchio. Ciò che si cerca, all’interno dello spettacolo è proprio l’evoluzione, accompagnata da un climax ascendente e da un’esplosione finale. L’impressione invece è che, sin dalla prima scena, il tutto sia già esploso, esplicitato, come se i personaggi abbiano già raggiunto questa evoluzione, elemento che non viene evidenziato neanche da una trasformazione nei comportamenti, negli abiti, nei colori e nelle luci, lasciando invece il palco all’interno di un chiaroscuro attraversato da sfumature rossastre. Don Catello, alias Arturo Cirillo, mostra, invece, una più accentuata sensualità e furbizia, che nel testo ruccelliano si evince fortemente e che forse mai nessuno è riuscito sinora a far emergere in scena. Manca invece di forza proprio Ferdinando, interpretato da Nino Bruno, nei panni di un ragazzino piagnucolone che trema davanti a tutto e a tutti. Ferdinando è il simbolo del nuovo, del maligno, ma il pubblico ride quando appare in scena, soprattutto quando è travestito da arcangelo Michele, simbolo antico ed equivoco del sacro e del profano. La morte di Don Catello, tradizionalmente interpretata con la caduta ai piedi del maligno travestito da S.Michele, secondo un’usanza legata agli antichi drammi sacri, si scinde invece in due momenti differenti, diluendo il collante tra il cardine, Ferdinando, e le sue marionette. L’idea di Cirillo ricalca le motivazioni originarie del testo ma sembra che la tendenza dello spettacolo sia quella di eliminare l’infida angoscia che penetra nelle menti degli spettatori dall’inizio alla fine. È invece fondamentale quella sensazione psicologica di lordura che Ruccello innesta nello spettatore-lettore, facendolo sbirciare attraverso le finestre, le tende, le serrature. Stavolta eravamo , invece, seduti nel salotto di Donna Clotilde.
FERDINANDO
Teatro San Ferdinando Napoli
20-24 marzo 2013
con Nino Bruno, Arturo Cirillo, Monica Piseddu, Sabrina Scuccimarra
scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
luci Badar Farok
musiche Francesco de Melis
regista assistente Roberto Capasso
produzione Fondazione Salerno Contemporanea - Teatro Stabile di Innovazione
in collaborazione con Benevento Città Spettacolo