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Una vera e propria riscrittura, che dialoga con le variazioni su uno dei miti più affascinanti della modernità. Il “Don Giovanni, a cenar teco” di Antonio Latella, visto al Teatro Valle Occupato di Roma, cita nel  titolo il libretto che Lorenzo Daponte scrive per Mozart, ma porta sulla scena un personaggio che parla come il protagonista del “Dom Juan” molièriano e che ricorda i comportamenti del “Burlador di Siviglia” di Tirso de Molina. Già nella complessità delle stratificazioni che si sono sedimentate per definire il protagonista, si coglie lo spessore del lavoro del regista, che non si limita a dar conto della varietà,  ma suggerisce continuamente l'attualità del mito. Grazie a una serie di allusioni ai codici del contemporaneo, per esempio con la musica, Latella rende il personaggio che firma con Linda Dalisi  uno specchio - simbolo spesso evocato - della società. L'edonismo e l'irriverenza dell'eroe mitico sfondano la parete del perbenismo borghese, ma anche la logica illusoria delle apparenze, su cui si fonda la nostra era virtuale.
Come sottolinea anche lo spazio scenico, la drammaturgia privilegia l'interpretazione di Don Giovanni come un bambino che gioca. Le continue metamorfosi, i travestimenti e le seduzioni sono quindi letti come conseguenza di quell'atteggiamento irresponsabile e infantile proprio del personaggio di Tirso, che gli fa ripetere "lunga scadenza mi dai" a chi lo invita a temere il giudizio divino. A suggerire una simile interpretazione sono gli oggetti scenici, e in particolare la presenza di un tavolo con sedie in miniatura, spesso contrapposto ad un analogo a dimensioni regolari. Non è un caso che le avventure dell'eroe, dalla prima all'ultima, si svolgano intorno a questo luogo deputato. E non è un caso che si tratti appunto di un tavolo, a sottolineare le parole del Commendatore che risuonano anche nel titolo. La scelta di rendere centrale la scena della cena offre la prospettiva di interpretazione del mito come oltraggio, la sfida dell'eroe che sembra dimenticare che "non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste". In quest'ottica acquista senso anche il gioco, che è negazione di ogni ordine precostituito, ma anche beffa, ipocrisia, bestemmia, sacrilegio. Erede del libertinismo intellettuale e dell'ateismo del personaggio di Molière,  il Don Giovanni di Latella vorrebbe risolvere il mondo in termini matematici, o geometrici, con il protagonista del dramma di Max Frisch. Eppure, nella instancabile sovrapposizione di testi operata dalla nuova scrittura, il precedente più forte rimane quello mozartiano. L'opera è citata, evocata, rielaborata, senza essere mai proposta direttamente. Latella ci arriva sempre di traverso, imponendo il modello con una forza ineguagliabile. Capita quindi che il libretto dapontiano venga detto, recitato come un testo letterario, o che le arie vengano cantate senza accompagnamento musicale, o ancora che al canto di una sola voce siano affidati passi celebri, come quello dello scontro con la Statua.
L'effetto è straniante come solo il teatro di Latella sa essere. L'opera si piega e si allarga, continuamente manipolata, sempre ricalcata sul reale, senza perdere, ma anzi accentuando i caratteri di tragico e comico dei modelli. La musica è spesso solo accennata, come introduzione, per poi lasciare spazio magari  a Raffaella Carrà.  sono tanti i momenti in cui lo spettatore ne sente la mancanza, e allora inizia a sentirla nella propria testa, anziché in sala. Ed è su questo gioco di sottrazione che Latella misura il proprio rapporto con il modello. Paradossalmente l'abbondanza di citazioni e di riferimenti non genera il pastiche, ma appunto sottolinea, riscrivendolo, l'opera che consegna il mito all' eternità,  e lo fa con quel gioco di piani intertestuali e metatestuali, su cui Latella sta in questi anni identificando la cifra del suo teatro.