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Dal testo teatrale alla drammaturgia. Secondo l’opinione di molti critici, la scrittura teatrale non ha ancora conseguito la dignità letteraria di prosa e poesia, dalle quali trae alimento. Il successo di un autore drammatico è dovuto più agli esiti della messa in scena e alle idee che espone che al linguaggio utilizzato. Il drammaturgo è prima teatrante e poi scrittore.
Spesso l’autore o il regista si rendono conto delle manchevolezze del testo nel passaggio dalla pagina letta alla scena ascoltata e osservata. Si ripresenta la dicotomia tra testo letterario e testo rappresentato. Si parla, per esempio, di drammaturgia come montaggio cinematografico: scrittura e messa in scena figlie di una medesima ispirazione, ma diverse. Ne consegue che il vero teatro non è rappresentato dal testo (come il vero film non è il materiale visivo registrato dal regista), ma è l’attuazione del testo sulla scena. Da una parte, il testo drammatico legato alla letteratura, dall’altra il testo drammaturgico legato al teatro.
La ricerca di un metodo deve tracciare una linea di confine più netta tra prosa/poesia e dramma. Deve unificare, pur mantenendo la centralità dell’autore, testo teatrale e drammaturgia, senza però invadere l’area di pertinenza dell’attore e del regista. Per fare ciò, l’autore si fa testimone di una messa in scena mentale, nella quale gli attori sono i personaggi e la regia è assicurata dal dialogo interiore tra drammaturgo (ora a pieno diritto) e personaggi agenti in un teatro virtuale, che si fanno attori e registi di sé stessi.
La ricerca di un metodo deve indirizzare verso il testo attuato in sé, un testo che non costituisce materiale spurio da nobilitare con la messa in scena, ma una rappresentazione completa e conclusa nella sua purezza letteraria; un testo che non si forma nella prospettiva dell’allestimento, ma che contiene in sé la propria messa in scena.
Un testo che non è frutto solo della propensione drammatica e della competenza letteraria, e soprattutto che non è figlio bastardo della prosa e della poesia; un testo di arte drammaturgica sulla scia di una consapevolezza di spazi, tempi, personaggi,  contenuti; vivo di vita propria, tagliato il cordone ombelicale con l’autore. Un testo che fa dire all’autore: scrivo per organizzare nella mia mente un dramma della stessa purezza del dormiveglia, che comunica il poco che so e apre vie di comunicazione con ciò che non si sa, nel quale s’incontrano istinto e ragione.
Questo testo nasce da un metodo, ma il metodo scaturisce dal testo: due rette parallele che s’incontrano all’infinito, nel regno del mito.
E tutto ciò in un luogo chiuso.
Questo articolo è la sintesi del lavoro che ho svolto per la ricerca di un metodo; e che non sarà mai del tutto concluso. Al momento, ho scritto sedici versioni dell’opera, che si considera ultimata, documentate da una trentina di cartelle di appunti in itinere, da sviluppare.
L’organizzazione del lavoro comprende: la scrittura di un’opera; il diario delle scoperte in itinere; la rilettura degli autori dell’ultimo secolo; la consultazione di testi vari su avanguardie teatrali e drammaturgie; l’approfondimento del pensiero di James Hillman, in particolare riguardo al dio Pan.
Teatro panico. Pan è dio, uomo e bestia. Pan tutto, ma l’unico dio che muore. Pan che vede in modo diverso dalle creature. L’essenziale, il vero, l’amorale. Arte sospesa tra istinto e ragione. Solo nell’area che sta tra l’origine naturale, animalesca e vegetale, anche minerale, e la coscienza sociale, in quella sezione di umanità che raccorda la persona alla natura e all’essenza misteriosa e superiore dell’universo può trovarsi il teatro. Mito. Immaginazioni grandi e universali.
La scelta dell’opera da scrivere è immediata: il sequel di “Mamma mammazza”. Il titolo è “Cataus. La casa dei gatti”.
Incomincio il 30 dicembre 2012. Termino il 6 febbraio 2013.

Il luogo chiuso adidascalico.

La drammaturgia (da questo punto in poi non si fanno più differenze tra drammaturgia e testo teatrale) non nasce in un salotto o in un angolo di strada tipico. Il suo spazio è indefinito come in un sogno. Viene arredato dagli stessi personaggi a seconda delle necessità. Sono loro, con le proprie parole, a definire lo spazio e a strutturarlo. Come sono loro a definire sé stessi e gli altri personaggi; a segnalare il trascorrere del tempo e le variazioni di luminosità. Abolite quindi le didascalie. Esse rappresentano l’aspetto soggettivo del testo teatrale, così come risulta nel romanzo, dove l’autore è libero di definire la forma del mondo e le caratteristiche fisiche e psicologiche dei personaggi. Nel genere drammatico, considerato oggettivo rispetto alla prosa, manifestano quindi l’invadenza dell’autore, che agisce senza tenere conto della “volontà” dei personaggi e dell’opera. I personaggi esprimono da sé la propria compiutezza nei dialoghi, non necessitano di annotazioni su psicologia, aspetto, comportamento. Al lettore, nella fase pre-allestimento, si chiede la stessa collaborazione-complicità stabilita con l’autore, uno sforzo immaginativo che gli fa introiettare il testo come visione.
La forma drammaturgica è rispettosa del regista e dell’attore. L’autore fa parole, non scenografie o costumi. È ridondanza che il testo fornisca indicazioni dettagliate di messa in scena. Il drammaturgo non deve fare il regista di una delle infinite possibilità di allestimento. La sua immaginazione pone i personaggi su un palcoscenico virtuale e ideale, non su quello di assi, sipario e marchingegni. Costruisce un ritmo teatrale, non un bel quadro. Scrive parole che si susseguono senza sosta suscitando emozioni e sentimenti, stimolando la mente e allargando la coscienza. Sono parole pure, sospese al di sopra della realtà.
Uno dei problemi della società è il linguaggio fasullo che non dice le cose, ma ci gira intorno. Un linguaggio che rinnova le forme, da quelle del bon ton a quelle del ritmo sincopato degli sms; ma non rinnova sé stesso, finendo per dire poco o niente con troppo.
Siamo bombardati da una logorrea inutile e confusionaria, uno sciame di parole che anestetizza il cervello, un vuoto ciarlare consolatorio. Il teatro non deve rispecchiare una comunicazione degenerata!
Le parole del drammaturgo devono essere soppesate una per una e devono avere sempre una giustificazione, non devono coprire il vuoto. Il vuoto, se c’è, va accettato e rivelato, non nascosto da suoni senza più un significato.
Di che cosa parlano milioni di persone? Di niente.
Questo è il rischio che la drammaturgia deve evitare: girare a vuoto intorno alle parole. Perdersi in tematiche insignificanti. O affrontare grandi tematiche affidandosi più all’oratoria che alla parola che stimola la mente a visualizzare, incuriosirsi, procedere per proprio conto nella contemplazione realistica e nella comprensione vera del mondo.
Il luogo delle parole eccessive è quello dell’ideologia e del fanatismo, dei massmedia e della pubblicità: un luogo chiuso, alla fine, perché mistifica e non rivela.
Anche il teatro vive in uno spazio chiuso, ben definito nei propri confini, nel quale gli interpreti si muovono come dentro una scatola. Lo fa per essere specchio dell’ottusità umana e per prendere invece le distanze da ogni contaminazione del pubblico di sala; e anche perché tutto nasce in una caverna/utero e perché, infine, la drammaturgia si è formata nella mente dell’autore.
Vi possono essere aperture, dato che oltre lo spazio delimitato si pone il mondo. Dalla scatola gli interpreti lo spiano. La possibilità di comunicazione con l’esterno non è abolita a priori, ma decisa di volta in volta.
Tuttavia, nella drammaturgia onirica, quale relazione ci può essere con un pubblico reale, di persone in carne e ossa? Prima ancora che quella del personaggio, si pone la questione del pubblico. L’immagine di un pubblico contrasta in modo fragoroso con la drammaturgia del luogo chiuso. Un pubblico reale che respira a pochi passi da personaggi che non respirano, che parlano e si muovono senza vita, perché non sono persone… è assurdo. Un pubblico che applaude! Non ha senso. Nessuno dei personaggi capirebbe chi sono le persone sedute che battono le mani. Ma un pubblico a teatro c’è. Il pubblico fa parte del teatro. E la drammaturgia, se ha nascita e sviluppo virtuali, non vuole certo fare a meno della messa in scena. Anzi! Essa è fatta per le assi del palcoscenico. La poiesis attende senza traumi e senza false timidezze di essere rivelata in un teatro.
Il pubblico è presente in simbolo, e in “Cataus” sono “i piccioni seduti sui propri escrementi”. Pure in sua assenza, il dialogo con il pubblico-umanità è quindi salvo e può anzi rivelarsi più ricco e profondo dell’invettiva o della satira, della mozione ideologica o del coinvolgimento umoristico.
Noi siamo testimoni, dicono gli spettatori. Ciò che succede noi lo vediamo, e siamo liberi di raccontarlo a modo nostro. Anche di distorcerlo. E di tacerlo. O di dimenticarlo. O di rinfacciarlo. O di prenderlo a esempio positivo o negativo. La catarsi, se c’è, è privata e spontanea. Il pubblico va lasciato libero di assistere nella modalità che preferisce. Può applaudire o no, può anche fischiare, può lasciare la sala. Ma nessun suo comportamento influisce sulla resa dello spettacolo. Gli interpreti proseguono senza tenere conto del pubblico. Non se ne fanno influenzare. Ogni volta, è come se recitassero per un pubblico più vasto, che al momento non è presente. Lo spettacolo è per l’umanità, non per gli spettatori presenti. Ciò scaturisce anche dalla drammaturgia, che non rivela, non commenta, non istruisce, non critica, non documenta, non dialoga, non getta ponti, non finalizza le parole al divertimento o all’emozione, non si asservisce all’Ego dell’autore. La drammaturgia è un limbo, non aspira né al paradiso né all’inferno. Essa è sé stessa e non gradisce strumentalizzazioni.

Una drammaturgia organica.

Le prime battute di “Cataus” mi inducono a riflettere sul ritmo dell’opera, che scandisce momenti di luce-buio e silenzio-voce; ritmo degli opposti; ritmo vitale, del respiro. Ecco, quindi, l’organicità. Una drammaturgia come essere vivente, che respira e si muove, alterna momenti di veglia e di sonno, di aggressione e quiescenza. Il respiro dell’autore si fonde con quello dell’opera. L’esito scaturisce dall’incontro di due esseri, ugualmente vivi: il drammaturgo, con la sua cultura e la sua creatività; e la drammaturgia, con i propri personaggi e le loro interazioni.
In questa visione di confronto tra esseri viventi, prende forma una triade. Nel luogo dell’attuazione essa è formata da pubblico, drammaturgia e allestimento. In sede drammaturgica essa è formata dall’autore, dal testo e dal pubblico trasfigurato in simbolo (in “Cataus” i piccioni, ma anche la luna e i cadaveri).
Il considerare la drammaturgia una creatura vivente comporta conseguenze straordinarie. Stiamo parlando di un animale? Di una forma di vita aliena? Di una pianta? Non importa come la si immagini, ma come la si tratta. Se si pretende di piegarla ai propri voleri, come si addestra all’obbedienza un animale domestico, ecco la drammaturgia della comunicazione razionale. Tutto vi viene analizzato e spiegato. La drammaturgia si piega ai voleri dell’autore e presenta al pubblico relazioni umane, sistemi economici e politici, problematiche sociali, patologie psichiche, storie d’amore, confessioni e memorie, esaltazioni e analisi critiche, lumi sul mondo coevo e sul passato, previsioni e consuntivi… un’enciclopedia universale. Ma se la creatura è selvatica, e meglio ancora selvaggia, bisogna fare i conti con la sua libertà, la sua istintualità, la sua ferocia e la sua scarsa attitudine a comunicare con l’uomo-autore. Si rende necessario l’ascolto reciproco attento e prudente, e anche piuttosto diffidente, perché ognuno dei due (drammaturgo e drammaturgia) tenta di portare acqua al proprio mulino, pur manifestando tutte le buone intenzioni per un’intesa felice.
L’autore che si mette in ascolto di questa poetica e furibonda belva… che cosa sente?
Cose che non appartengono ai giornali, alla televisione e al cinema. Cose che non fanno una storia da romanzo. Cose che non sono la voce di individui, e nemmeno di popoli. Le cose di cui parla la bestia drammaturgica appartengono all’umanità nella sua essenza astorica, rivelatrice del mito che ancora e sempre si porta dentro.
Per dare voce ai personaggi, l’autore si tiene costantemente in contatto con gli elementi della scena, da ognuno dei quali e dalle cui relazioni possono scaturire parole e indizi per lo sviluppo dell’azione. In “Cataus” essi sono: Emma, Piero, Chiara, Marple, Gatto, Gatta, la luna, la televisione, l’alternarsi di luce e oscurità, i cinque cadaveri, il tavolo, il divano, i picconi, la fessura, i piccioni all’esterno. Si tratta di una situazione complessa che offre una ragnatela di relazioni. Tale relazioni non vanno stabilite e perfezionate a tavolino dall’autore. L’autore si limita a prenderle in considerazione e a spingere i personaggi, potenzialmente ricchi di iniziativa e curiosità, a fare scelte che armonizzino con il tutto.
Per ascoltare i personaggi, deve distinguere tra le voci false e quelle vere. I personaggi sgomitano per rendersi protagonisti e blaterano a vuoto. Bisogna non solo ascoltarli, ma fornire loro altre possibilità di sviluppo in un gioco di ipotesi che amplia il campo d’azione. Questo gioco di immaginare che cosa potrebbero dire e fare assottiglia sempre più l’arco delle possibilità e fa da imbuto, convogliando la scrittura verso la versione definitiva, coerente, necessaria.
La tentazione è quella di agire sull’opera e non con l’opera. Di procedere come storia e non come autosviluppo dei personaggi. Quella di fare il Demiurgo: plasmare i personaggi come se fossero materia priva di anima e nobilitarli nel mondo delle idee. Non l’opera del Demiurgo, ma la maieutica socratica fa il drammaturgo, che interroga i personaggi “addormentati” per far prendere loro piena coscienza di sé.
Sono i personaggi a fare il testo; che poi l’autore scrive.
Un’altra conseguenza straordinaria la si incontra in sede di messa in scena. La compagnia non si ritrova a fare i conti con un testo scritto da analizzare intorno a un tavolo facendo riferimento a cultura teatrale, estetica e conoscenza dell’animo umano. Attori e registi si confrontano con una creatura viva che, come tutte le creature, ha reazioni ad ogni azione dall’esterno. A seconda di come si rapportano i teatranti, essa potrebbe: spaventarsi e richiudersi a riccio, rifiutarsi di accettare cambiamenti, illudersi di un destino migliore, incuriosirsi e stabilire contatti, sentirsi a proprio agio e avviare una relazione amichevole…
Ecco, con questa cautela si deve affrontare l’opera. Con il tatto e l’animo bendisposto dell’ospitalità. Con il rispetto e il trattamento da pari a pari che si riserva all’ospite gradito. Ma questo non è l’ambito per trattare di regia.

Le regole dei personaggi.

La regola di azione-reazione.
Ogni personaggio ha in sé l’energia per contribuire allo sviluppo del dramma. Ma ogni sua scelta di parole o di azioni genera reazioni negli altri personaggi. C’è come una corrente elettrica che passa dall’uno all’altro, producendo altra energia. Un flipper. La pallina viene lanciata dal giocatore, ma poi rimbalza qua e là abbastanza casualmente. Un personaggio che entra in scena già con il proprio futuro scritto o progettato dall’autore è privo della carica che lo fa interagire con gli altri. Egli procede lungo un proprio tracciato che sfiora gli altri senza attivarli. Il suo sviluppo è sterile. I personaggi devono mantenersi disponibili a cambiamenti anche importanti, sulla scia dei comportamenti altrui; senza però che questi cambiamenti  li rendano incoerenti con la propria linea di sviluppo, che è da svelare. Ciò equivale a dire che i personaggi sono vivi, e vivono la stesura dell’opera non come sudditi dell’autore, ma come compartecipi della propria creazione.
La regola della mitopsicologia.
Il personaggio non è una persona reale. A che serve mettere sul palcoscenico il clone di una persona con i tratti della realtà? In questo modo si fa un teatro documentario-conferenziale-televisivo-filmico-narrativo-prosaico. Scrivere una fiction e metterla in scena traducendo la prosa in note, didascalie e dialoghi non significa spostarsi dalla letteratura di prosa alla drammaturgia. La prosa, invece che essere letta, viene declamata e resa visibile; tutto qua.
La drammaturgia del luogo chiuso fa a meno del personaggio-persona.
Rifiuta la noia di dare corpo e voce a persone che potremmo incontrare tra le mura di casa, al bar, in metropolitana, in una piazza. La quotidianità è tediosa, artisticamente rozza (non ha misura), di solito poco significativa, narcisistica e ottusa.
Ma c’è anche il personaggio puro, frutto dell’immaginazione scatenata dell’autore. Esso spesso viene costruito su una tesi, su una cultura specifica che si vuole esibire, su una formula matematica che pretende di svelare e dimostrare; o anche solo su un libero gioco di fantasia, in cui ciò che succede è svincolato dal desiderio di lanciare un messaggio. Un personaggio irreale che per esistere conta solo sulla propria coerenza interna. Consolatorio e rassicurante, proposto come fuga dalla realtà, dai caratteri adolescenziali, lontano da una visione reale e impietosa del mondo. 
La drammaturgia  del luogo chiuso, che si appella alla forza dell’immaginazione, non fa a meno dell’umanità del personaggio.
Il personaggio è in un ambiente che richiama quello umano, stabilisce relazioni che ricordano quelle umane, manifesta emozioni e sentimenti, si esprime con un linguaggio tra quello alto/letterario e quello dei rapporti quotidiani.
A metà strada tra la persona e il personaggio, il protagonista della drammaturgia è fuori del tempo e dello spazio, ma presenta suggestioni che facilitano l’esegesi della sua sfera esistenziale, consentendo riferimenti immediati a situazioni di vita contemporanea.
La regola dell’agonismo.
Come chiamare questo personaggio? Agonista. Termine mediato dalla biochimica e dall’antica Grecia. L’agonista instaura legami, provoca reazioni e fa da legante. L’agonista gioca/lotta/si esibisce. Ci porta alla recitazione non limitata all’immedesimazione, ma espressione ritmica di parole corporee. Una recitazione coreografica.
La regola dei vettori.
Gli agonisti sono vettori. Il trattamento del personaggio, di solito, viene effettuato tenendo conto della sua psicologia. Sostituisco allo stimolo della psicologia quello del vettore. Indago nella forza vitale dell’agonista, identifico le sue spinte, le sue motivazioni, la direzione e la forza della sua energia, che può essere collaborativa, distruttiva o mascherata.
Uno dei vettori del gatto, per esempio, è il suo interesse sessuale per la gatta. Di conseguenza, la provoca, la insulta, la blandisce, l’assalta, la umilia, esasperato dalla sua indifferenza.
L’ispettore, come detto, è mosso dall’ambizione, ma soprattutto dal bisogno di una migliore immagine di sé, da offrire alla moglie. In sottordine, un sincero anelito di giustizia.
Che cosa ci dicono i vettori? Su chi si dirige l’azione e con quale intensità.
A che cosa servono i vettori? L’utilizzo più importante riguarda l’argine alla trama ideata dall’autore, e non dai personaggi. Se si identificano le linee di forza comportamentali degli agonisti, la trama si piega alle loro esigenze, e non il contrario.
La regola dei palcoscenici.
C’è un doppio palcoscenico. Uno esterno, destinato al pubblico. E uno interno a ogni personaggio, su cui il personaggio si esibisce con i fantasmi dei partner. È su questo palcoscenico interiore che l’agonista si plasma il linguaggio, attiva o inibisce la forza dei vettori, agisce e reagisce, tende al mito. Devo quindi entrare nel personaggio e osservare che cosa avviene sul suo palcoscenico personale.
In realtà, l’agonista agisce su tre palcoscenici diversi. Sul primo recita davanti a un pubblico; usa le parole in senso sociale, da persona civile, e questo è il livello più superficiale della comunicazione, quando si fanno arrivare le cose come si vuole che appaiano, non come sono; il livello dei rapporti di convivenza, con le formule di cortesia e le frasi fatte.
Il secondo è quello del sottotesto; l’agonista fa risuonare dentro di sé le parole che pronuncia e altre, segrete, a commento; egli smonta il meccanismo della comunicazione sociale, sia in entrata sia in uscita, e svela ciò che si nasconde dietro una battuta; è il livello di verità contingente, legata alle singole relazioni e alle situazioni; è il viso dietro la maschera.
Il terzo palcoscenico non vede più interagire gli agonisti, ma l’agonista singolo e l’universo la cui complessità è strumentalmente unificata in riferimento alla situazione; accettazione e comprensione della realtà proiettata sul palcoscenico della storia e del cosmo; il gioco teatrale rivissuto a livello simbolico; la comprensione del mondo, non più legata alla sfera culturale, scaturisce da una coscienza che sconfina.
I tre palcoscenici rappresentano tre livelli di coscienza.
La regola dell’eroe mancante.
La drammaturgia del luogo chiuso è per forza di cose estranea al protagonismo, che ha bisogno di risonanza. La creazione come prova di genialità e il prodotto come esemplare eccezionale in grado di impersonare tutta una categoria sociale o tutta la società, se non l’umanità, sono estranei alla linea drammaturgica.
Non esiste eroe che non sia vittima o del potere contro cui lotta o dei propri ideali e, alla lunga, di sé stesso. L’eroe soccombe alla propria fama e all’idea che si fa di sé, dato che si trasfigura in monumento e che tutti i monumenti si sgretolano e crollano.
Non c’è eroismo, sulla scena, se non come invenzione e strategia di un utilizzatore a scopi elettorali.
La regola della parcellizzazione.
Si suddividono i dialoghi in sequenze, anche minime. Si spremono dai dialoghi tutti i riferimenti e le suggestioni, per scoprire il mondo che ci sta sotto, per intuire lo sviluppo di una situazione, per definire l’ambiente e le relazioni. Ogni lotto è trattato come se fosse un’opera a sé.
Il controllo è avviato non sulla prosa, ma sulle parole sceniche. Il drammaturgo sale sul palcoscenico e le recita a sé stesso, cogliendo le occasioni e le possibilità di movimento, luce, musica. In “Cataus”, il gatto esordisce parlando dell’oscurità. Se ne trae la conclusione che manca la corrente elettrica: Emma compare con una candela. L’antinomia tra luce e buio pungola l’attenzione dell’autore che esplora la scena e scorge la fessura da cui appare una luna/lampione: tante tonalità luminose, tanti simboli. Luce di fiammella in cui si vede e non si vede, luce di mistero e di rivelazione, di visione e apparizione.
Le parole portano all’immagine e l’immagine stimola altre parole.
Se l’autore s’inventa un intervento registico, musicale o coreografico, non lo mette per iscritto. Fa solo parte del metodo per una drammaturgia non letteraria. Della sua rappresentazione virtuale avanzano solo le parole.
La regola della condensazione.
A ogni rilettura, semplifico la sintassi. Elimino verbi e accessori. Concentro. Dal linguaggio fluido della prosa a quello di condensazione in un lemma. Cercare, tra un punto e l’altro, o nell’inciso tra due virgole, la zona di silenzio o di voce abbassata, un chiaroscuro in cui intuire altre cose, alcune tremende, tutta la forza del taciuto e dell’inesprimibile. Ma senza martirizzare la messa in scena con le pause lunghe e presuntuose, nelle quali si scarica tutto ciò che non si sa esprimere. La pausa sia un guizzo di silenzio di durata misurata sull’apnea: per quanto si può trattenere il respiro senza provare fastidio? L’ombra di una nuvola che passa davanti al sole.

L’agone tra personaggio e drammaturgo.

I personaggi di “Cataus” sono sei, ma gli interpreti solo tre. Ciò consente di eliminare fin da subito la questione delle entrate e delle uscite. Con l’attivazione dei tre personaggi (Gatto, Gatta ed Emma) in scena sono già presenti anche l’ispettore Marple, Piero e Chiara. La drammaturgia del luogo chiuso non prevede entrate e uscite. Non c’è niente al di là della scatola e i personaggi non ne possono uscire. Essi vivono solo nel luogo dell’immaginazione. È impensabile che un interprete se ne vada dietro le quinte abbandonando il personaggio e riprendendolo poco dopo. Sarebbe come fare tanti spettacoli diversi, separati tra loro dai ritorni degli attori sulla scena.
Monitorando la presenza/assenza di un personaggio, il drammaturgo lo rende presente nell’assenza attraverso le parole degli altri, che lo evocano; la sua momentanea assenza nella presenza (zona d’ombra, assopimento…) è rilevata dai commenti su rumori o azioni che il pubblico non vede. Nessuno è mai “fuori scena”. Se non ha battute, fa rumore, o si manifesta con il movimento. Uno strumento smette di suonare solo per sottolineare con il silenzio la musica altrui, ma è un silenzio di presenza, un’espressione interiore che per il momento non si concede.
Che cosa m’insegna il trattamento dei personaggi? Che tra l’agonista e l’autore s’instaura una complicità segreta, che non appare nel testo. Come può instaurarsi un rapporto tra l’autore vivente e un personaggio ancora da creare? In realtà, nell’atto di volontà di inserire un personaggio nel testo è già insito un personaggio vivo, che l’autore non ha ancora ascoltato e che gli appare quindi ancora impreciso e confuso. Da quel momento anche tra autore e personaggio s’instaura l’agone che li vede schierati su fronti opposti e spiarsi con diffidenza, incapaci di mosse coerenti perché ancora non si conoscono; stuzzicarsi e prevaricarsi in nome di un protagonismo contrapposto. Il duello li impegna a definire l’ambito di ognuno, a farsi specchio ognuno dell’altro, a riconoscersi i diritti reciproci di esistenza e libertà espressiva. Ambedue lottano con tocco leggero, attenti a evitare prevaricazioni che toglierebbero verità all’uno e all’altro. Si tratta di definire i compromessi corretti e accettabili per cui il personaggio può autodefinirsi nei limiti imposti dalla volontà estetica dell’autore. Via via che la contrapposizione dialettica fonde i due in una sintesi efficace, il personaggio si fa agonista ed è pronto a ripetere il processo con gli altri personaggi. L’agone quindi si fa complesso e comprende non solo l’autore e ogni singolo personaggio, ma anche le dinamiche tra i personaggi. Tutti alla fine dovrebbero diventare agonisti sotto la guida-regia dell’autore, che è quindi re-gista del popolo delle proprie creature.
La complicità è quindi ludica, un gioco che solo in apparenza mostra la contrapposizione e la lotta. L’autore non vuole piegare il personaggio ai propri voleri e il personaggio non vuole defraudare l’autore della propria integrità creativa. Ambedue giocano per darsi piacere e verità vicendevole e ciò accade perché ognuno dei due rispetta l’altro.
Da che cosa può essere rovinato il gioco?
Anzitutto, l’autore possiede un notevole bagaglio culturale. Frugandoci, non è sempre sicuro di che cosa sia davvero suo e di che cosa abbia invece solo ereditato dall’educazione e dall’ambiente senza che abbia mai appurato fino in fondo la propria approvazione. Egli rischia, quindi, di soffocare la genuinità del personaggio con atteggiamenti che non sono propri, forme mentali appiccicaticce. Inoltre, ha assimilato forme estetiche che dà per definitive, e le applica con spavalderia e incoscienza, giungendo poi a risultati che non lo appagano.
Il confronto-scontro con il personaggio rimette in gioco tutte le sue certezze, da quelle estetiche a quelle ideologiche. Il personaggio lo invita a farsi un’idea personale del mondo e a verificare le proprie conoscenze, vagliando quelle che condivide in toto.
L’autore, d’altronde, deve fare i conti con l’anarchia del personaggio. Esso fa leva su ogni battuta per allargarsi in ogni direzione, seguendo ora il sentiero dell’ironia ora la strada del sarcasmo e altre volte il tracciato forte della tragedia o la via dritta della commedia. Il personaggio vuole, anzitutto, farsi agonista e rendersi non solo partecipe, ma protagonista del gioco in corso. Vuole confrontarsi con gli altri personaggi per soggiogarli, vuole impadronirsi delle battute migliori, imporre le proprie scelte anche se risultano incoerenti e inconcludenti. Esso è impulsivo come un neonato, ansioso di assoggettare il mondo a sé. Ma come il neonato non ha ancora la padronanza del mondo che vorrebbe conquistare. Ci sono momenti in cui è assente, non sa che cosa fare, come autodefinirsi, ed è in questi momenti che manifesta tutta la sua dipendenza dall’autore.
Sia da parte dell’autore sia da quella del personaggio ci sono momenti di forza e momenti di assenza; l’uno e l’altro devono alternare arrendevolezza e imposizione, in modo da livellare il diagramma e da rendere il processo sempre positivo e produttivo.
Tale collaborazione nasce da: la capacità dell’autore di conoscere sé stesso e di saper distinguere tra ciò che è suo e ciò che è d’altri; la consapevolezza dell’agone, per cui tutti i personaggi si fanno sempre presenti; il controllo dell’impulso creativo, che deve sottomettersi a una transcoscienza in grado di vedere al di là.

La transcoscienza.

Il flusso di transcoscienza è l’opera nel suo fluire fluviale, senza interruzioni, di corrente forte che ora s’infrange contro i massi ora fa mulinelli, ora si fa tumultuosa ora lenta e solenne, ora gorgoglia e grida ora sussurra o sibila. Verso quale mare si dirige il fiume di parole? Verso quello dei miti. Ma non intende sfociare in un mito particolare e nemmeno naufragare nella forma prelogica. Intende mescolare le proprie acque a quelle del mare per farsi portare dalle onde verso la riva opposta, là dove si estende la terra primigenia. La regione dei creatori di miti. Che cosa ci va a fare? A condividere la dimensione psichica che ha spinto gli uomini a dare spiegazioni irrazionali del mondo e della sua origine. A condividere il legame vitale con la terra e con il cielo, con le acque e con le creature viventi. Il legame con la natura. Il fiume di parole si è formato attingendo acqua da questo territorio di confine tra la coscienza e il mistero, e ora ci fa ritorno.
L’autore lavora in modo consapevole per produrre il testo. Ma sa che il suo livello di coscienza è infarcito di contenuti di educazione, influenza ambientale ed ereditarietà che egli in realtà non apprezza e non controlla del tutto. La costruzione dell’Io non è mai finita e molte scelte possono essere influenzate più da una volontà estranea che dalla propria.
L’incertezza sulla propria integrità si riflette sul trattamento del personaggio. L’autore rischia di plasmare il personaggio come è stata plasmata la sua autocoscienza, con pesanti ingerenze. Egli quindi libera il personaggio dal proprio dominio assoluto e lo situa nella regione della transcoscienza, là dove sono nati i miti.
In tale modo, cerca di raccordarlo alla natura e alla vita senza mediazioni culturali, politiche e religiose. Ne cerca l’autenticità dove il mito si è contrapposto al logo, narrando per immagini e non per concetti.