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Ci sono tanti modi e possono esserci tante parole per dire il concetto che sta al centro di “Sangue sul collo del gatto” il testo di Rainer Werner Fassbinder che lo Stabile di Palermo ha deciso di mettere in scena e che si è visto dal 21 marzo al 14 aprile sulle tavole del Teatro Bellini nel contesto della stagione del “Biondo Stabile”: un concetto antico quanto è antica la riflessione sull’arte e che, più o meno, dice che l’ arte aiuta l’uomo ad aprire gli occhi sul mondo. Un concetto che poi, certo, è stato declinato e aggiornato in mille e mille modi e che la tradizione teatrale occidentale ha completamente assimilato a partire dalla riflessione che sostanzia il teatro epico-politico Brecht. Una riflessione fondante quest’ultima che si incentra sullo “straniamento”, ovvero sulla possibilità/capacità che il teatro (ma in qualche modo ogni vero fenomeno artistico) concede allo spettatore di avere uno sguardo altro, lucido e politicamente attivo su quanto accade nel mondo. Una riflessione che, ovviamente, Fassbinder ha assimilato profondamente, aggiornato al contesto europeo degli anni settanta del secolo scorso e tradotto in questa pièce che, pur messa in scena di rado, possiede tuttavia un suo fascino sicuro. La traduzione usata è quella di Roberto Menin, la regia dello spettacolo è di Umberto Cantone che ha pure lavorato sul testo, aggiornandolo e talvolta intervenendo nella tessitura linguistica e concettuale in modo non sempre apprezzabile (non giustificate appaiono, ad esempio, le inserzioni e le coloriture dialettali), la scenografia (desertica, lunare, quasi di gusto metafisico) e i costumi sono di Pietro Carriglio, in scena ci sono Cristina Coltelli (l’aliena Phoebe Zeitgeist, straniata, quasi spettrale, inquietante), Filippo Luna (bravo come sempre, ma non ben caratterizzato nel ruolo del macellaio ferito d’amore che cerca il sesso a pagamento del venerdì sera e finisce col diventare violento), Pierluigi Corallo (il maestro omosessuale e ipocrita), Raffaele Esposito (il poliziotto, dai modi spicci e di ispirazione pasoliniana), Vito Di Bella (il soldato fragile), Eva Drammis (l’amata, indurita dalla vita), Aurora Falcone (la ragazza che scoppia di vita e si aggira nel web), Giacomo Guarneri (l’amante seduttore compulsivo e volgare che ama la carne stanca e non può andare mai con una donna più di una notte), Roberta Azzarone (la modella, anche lei seduttrice compulsiva), Jennifer Din Chin (la moglie del soldato morto, che affronta l’umiliazione continua della povertà), Pietro Motisi (nel ruolo interessante e muto del fotografo non presente nel testo originale). L’azione drammaturgica è semplice e diretta: un’aliena, straniata e stranita, finita casualmente nel nostro mondo per studiare la società degli uomini, carpire i segreti della loro democrazia, assiste al dispiegarsi contorto, e sostanzialmente malato e violento, delle relazioni tra le persone che incontra. Di queste relazioni, di questi intrecci, di questi personaggi, dapprima assimila passivamente gesti, movenze, automatismi, linguaggio, ossessioni, falsità, mostruosità, per poi improvvisamente diventarne implacabile specchio, giudice involontario ma, appunto per questo, implacabile “angelo sterminatore” capace di rovesciare quanto aveva imparato contro quegli stessi che glielo avevano insegnato. La messinscena, alquanto statica, non appare tuttavia convincente in quanto non reinterpreta radicalmente il senso stesso della scrittura di Fassbinder, fermandosi a un generico, e un po’ stanco, épater le bourgeoisie che oggi non tocca nessuno, laddove invece l’interessante tema dell’immagine, della sua potenza e presenza ossessiva e condizionante, e del voyeurismo ad essa connesso, pur presente nella messinscena (e suggerita dalla presenza e dalla attività continua del fotografo), avrebbe potuto avere ben più ampio respiro se non addirittura diventarne nucleo propulsivo.

Foto Pietro Motisi