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“Riti di passaggio / This is the Box” è un progetto biennale in fieri, costellato di diverse tappe produttive di eventi, in cui l’argomento della temporalità umana viene affrontato al vaglio dell’espressione teatrale in interazione espansa con altre arti e linguaggi, così da coinvolgere grado a grado una fascia sempre più ampia di pubblico e interessati sul tema dell’avanzare del tempo. Ovverosia, dei segni e delle tracce che esso lascia inesorabilmente sul corpo e l’animo di ogni persona, soggetta nondimeno ai relativi e condizionanti pregiudizi altrui. L’obiettivo, pertanto, è di sviluppare nei partecipanti attivi – artisti, intellettuali e spettatori – degli elementi conoscitivi e di costruttiva consapevolezza affinché ognuno riesca a vivere correttamente la propria età, senza soggiacere a modelli o luoghi comuni imposti dal vivere sociale, oggi preda di inconsistenti edonismi e mercificazioni di varia natura ed ego.
L’operazione accennata nasce dall’associazione Teatrincorso di Trento e questo martedì 16 aprile – nella stessa città – vede un nuovo appuntamento al Museo delle Scienze, consistente in un dialogo alla pari fra pensiero scientifico ed espressione artistica intorno al quesito se si può “sfuggire, in qualche modo, ad un ciclo biologico ‘a termine’”.
Nel frattempo, un mese fa, eccomi invitato nel capoluogo trentino per uno spettacolo rientrante in tale progetto e a cui ho assistito nel vivacissimo Spazio 14, un versatile teatro multifunzionale gestito con fervore ideativo e tensione etica dalle dinamiche guide di (per l’appunto) Teatrincorso: Elena R. Marino e Silvia Furlan, a loro volta affiancate con brillante freschezza dalla responsabile degli aspetti organizzativi e promozionali, Clara Coser. Il lavoro in questione s’intitola PASS/AGES, ed è stato scritto e diretto dalla Marino per l’interpretazione solista della Furlan, calata in una dimensione scenica multimediale di proiezioni video, brani musicali di diverso genere e interventi di luci trascoloranti, non immuni dalle pressioni del buio. Nel festoso sold out registrato, gli spettatori assiepati nella compatta sala interna assistono con fibrillante e palpabile attenzione alle svarianti riflessioni di una donna sul passaggio imperterrito del tempo, sorte in corrispondenza del suo trentacinquesimo compleanno (il supposto nonché critico “mezzo del cammin di nostra vita” di dantesca memoria). Un discorso orientato al femminile, e messo a confronto con gli sguardi e gli stereotipi rinvenibili diffusamente nel più vasto contesto sociale odierno. Contesto attuale peraltro – guardando oltre il puro fatto teatrale – disgregato più che mai, quotidianamente sbranato da altri tipi di micidiali “crisi” che non attengono soltanto al trascorrere dell’età e quindi alla paura d’invecchiare e di scomparire infine consunti, stando a una delle problematiche pilota della drammaturgia indiziata. Sicché, la protagonista rimanda a sittanta frammentazione – la quale è, innanzitutto, di cifra personale – già a partire dalla prima immagine in cui lei segmenta una danza di pose, immersa in un bagliore assolvente ritagliato nell’oscurità e dietro una sorta di bianco velario listato che divide a metà la scena. Davanti, nel mentre, compaiono frasi proiettate che sintetizzano subito la sua condizione di esposizione alle ingiurie di una società che la riduce entro visioni di comodo – e perciò imprigionanti – circa l’avvicendarsi degli anni sul suo essere fisico ed esistenziale. L’interprete allora dà corso alla sua sarabanda di disquisizioni, solcando la scena avanti e indietro dal suddetto velario di mezzo, poi con peripli e spostamenti per ogni dove, cambiando abiti e indumenti, buttandosi prima in speciosi balli e dopo in sfiancanti ginnastiche al fine di rigenerare corpo e spirito al cospetto degli altri. Altri che, nella fattispecie, vengono oggettivizzati e resi presenti attraverso i materiali scenici: delle semoventi proiezioni in digitale, così, animano di gente festante le sottili liste del sipario di metà palco; una successione di oggetti-regalo quali pupazzi, un tappetino verde e un rosso vestito oltremodo largo, vengono in seguito tirati fuori dall’attrice a invadere progressivamente il proscenio. Il primo caso fa rivivere un party di compleanno simile al “divertimentificio” vano (per dirla col filosofo e psicoanalista Galimberti) regnante ai nostri giorni, nel quale si opprime con insostenibile leggerezza l’espressione di un’umana autenticità che aiuti una viva vicinanza di contatti; nei seguenti, si assevera ulteriormente il problema sottolineando il lato della spersonalizzazione nelle relazioni fra umani, in un mondo soffocato dalle troppe cose di cui tendiamo a circondarci. La ragazza difatti, rivolgendosi direttamente al suo superficiale fidanzato, parla invero al pelouche che lui le ha regalato in mezzo ai tanti di cui è già in possesso; l’abito extralarge, ricevuto anch’esso in dono, invece diviene tramite per un’evocazione del Re Lear shakespeariano rivolto alle furie della Natura insensibili al destino dell’Uomo costretto a invecchiare. Tale nobile enfasi cangia e si distende alfine in una richiesta d’amore leale e grande da potersi provare per crescere nella bellezza misteriosa della vita, cosicché – poco oltre – l’epilogo dello spettacolo può accendersi finalmente di luce al centro della scena annerita intorno. Lì, sdraiata sul tappeto verde donatole dai genitori, la donna ricorda un semplice gioco inerente al fingersi morti cui soleva intrattenersi con la madre. Ed è come un ritornare all’alveo materno, alle proprie origini di Esseri che vengono da e sono destinati a un Altrove, secondo una concezione del tempo che dunque rompe con l’idea diffusa e costrittiva di un suo astratto procedere lineare, recuperandolo semmai a una circolarità di maggior raggio e respiro che riapre all’alternativa arricchente delle possibilità.
Messinscena apprezzabile e, non per niente, applaudita che però può crescere ancora. Avrei almeno marcato con più drammaticità, ossia, certi passaggi del testo per conferire superiore forza ai contrastanti momenti di ironia, pur giostrati con divertimento del pubblico dalla brava Furlan. La chiave della leggerezza ironica, infatti, predomina sulla recita attestandola su una gradazione sostanzialmente uniforme: scelta che rende sì gradevole la rappresentazione, facendola consuonare col descritto finale, tuttavia inficiandone un po’ la trasmissione dell’ineluttabilità del tempo che scorre e la possibile toccante nostalgia che ciò comporta, la quale avrebbe poi reso maggiormente potente il liberatorio controcanto conclusivo dell’accettazione.

PASS/AGES
Drammaturgia e regia: Elena R. Marino.
Interprete: Silvia Furlan.
Produzione: Teatrincorso.
Prima rappresentazione assoluta: Trento, Spazio 14, 8 marzo 2013.
Links:
www.spazio14.it
elenamarino.wordpress.com
www.mtsn.tn.it

Foto Elena R. Marino