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Se della vita non si ha ben chiara la fine, se persino si dimentica che una fine c’è, se la fine è un concetto da nascondere, se la morte è un concetto da evitare, rimuovere, della vita allora non si può aver chiaro l’inizio, il senso e nemmeno il percorso: «in my end is my beginning» ha scritto T.S. Eliott nei Four quartets e lo ha scritto, tra l’altro, recuperando,  riscrivendo, rivivendo l’antichissima e mai troppo salutare lezione sapienziale del Qoelet biblico. Un libro pieno di morte Qoelet, un libro che è una medicina potentissima contro ogni menzogna e in ogni tempo, un libro che ricorda all’ uomo che dalla polvere si viene e alla polvere si torna: tutti, gli uomini, le bestie, davvero tutti. Scriviamo di “The end”, lo spettacolo di Babilonia Teatri che si è visto sabato 6 aprile scorso nei Viagrande Studios, il nuovo (grande e molto bello) spazio di teatro e danza che sì è aperto da poco a Viagrande in provincia di Catania. Si tratta di uno spettacolo che ha ricevuto, certo meritatamente, un grandissimo successo di critica (premio Ubu 2011) e di pubblico e che questa volta viene portato in scena dall’ ensemble veneto con l’interpretazione di Enrico Castellani e non di Valeria Raimondi che fa soltanto una breve apparizione in scena.
Il baricentro dello spettacolo è il testo/monologo che Castellani recita, freddo e rabbioso, col respiro di un rap: un testo durissimo e colto, che da un ruvido dialetto veronese, impastato nella concretezza del nord-est “produttore” (uno dei tanti nel mondo), tracima in una lingua limpida e secca, paratattica, sincopata, in cui citazioni e materiali perdono di definizione per coagularsi in un unicum di corrosiva asprezza. Ironia, autoironia, dolore, rabbia, violenza. Citazioni e materiali che attraversano aree concettuali vastissime, da Cecco Angiolieri a De Andrè, da Quasimodo a Qoelet (appunto), dal quotidiano ciarpame televisivo alla liturgia cattolica pasquale («io credo non risorgerò, io credo cenere resterò»). Ma di teatro si tratta e il testo, pur bellissimo e potente, non basterebbe da solo se non si riflettesse nel contesto di una costruzione scenica in cui accanto alle parole ci sono dei segni, in cui tutto converge con ineluttabile climax verso un’azione (una specie di anti-liturgia della verità che vince la menzogna) e lascia persino intravedere una possibile catarsi. I segni: le mani dell’attore macchiate di sangue a guisa di laiche stigmati, un grande frigorifero/camera mortuaria, una statua di Cristo che viene ricomposta, una croce di tubi di ferro issata senza tanti complimenti e su cui quel Cristo viene fermato sbrigativamente, la morte che viene con la leggerezza semplice, “naturale”, d’una canzone (“Ciao, amore, ciao”) di Luigi Tenco, la morte salutata con un Hully Gully collettivo tanto insensato quanto liberante, la grossa testa di un bue e quella d’un asino, troncate e cruente di sangue rappreso, issate accanto a Cristo a far da ladroni e/o da materico presepe post mortem, una stella cometa finta, troppo finta e luccicante per non esser tristemente vera. E allora: la morte esiste e per evitare la menzogna che la nega («una volta i genitori invecchiavano, oggi scopano, trombano, poi scompaiono») meglio la blasfemia («piscio sulla vostra religione addomesticata»); meglio invocare il boia che affogare nel fetore di una menzogna disumana («non mi vedrete con le mutande piene di merda, nuotare nel mio stesso pisso», «…niente antidolorifici, protocolli… non sono Dorian Gray», ) che non ci consente nemmeno di morire nella verità e da uomini. E la catarsi, infine, una catarsi che giunge senza parole e sulle ali di una metafora trasparente (anche troppo trasparente forse – ma vedi ancora alla voce Qoelet - ed è questo l’unico difetto dello spettacolo): sulle note lunghe, struggenti, taglienti dei Doors (“The end”), entra in scena Castellani con un bimbo piccolo in braccio.