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Comici fatti di sangue Tre racconti “ d’umorismo tragico” di Ugo Chiti e Alessandro Benvenuti. Diretto e interpretato da Alessandro Benvenuti.

Recensione di Selene Nannicini

Alessandro Benvenuti, dopo un periodo di pausa dalle scene, si presenta sul palco del teatro Rossini di Pontasserchio con lo spettacolo Comici fatti di sangue con cinque monologhi (due di questi portano la firma del collega Ugo Chiti) basati su drammi familiari. L’attore toscano che in gioventù aveva fatto parte del trio cabarettistico I Giancattivi, fondato alla fine degli anni ’70 con Francesco Nuti e Athina Cenci, per poi approdare al cinema come regista e attore in vari film, ritorna a teatro portando con sé la malinconia celata dal sorriso. Quello di Benvenuti è uno spettacolo già collaudato in passato che ora l’attore ha riadattato e dove, dalla tragicità delle storie (il figlio suicida, il padre assassino), scaturisce il lato comico: infatti l’humour è la chiave di volta di tutta la messa in scena condotta dallo spirito vivace e provocatorio del “toscanaccio”. Attraverso semplici spostamenti nello spazio scenico, l’attore differenzia i monologhi scritti di suo pugno (recitati sia stando seduto su una sedia sia in piedi sul boccascena) da quelli di Chiti (dove i testi vengono letti e interpretati al leggio posto sulla sinistra del palco). Una serie di divertenti avventure tra un cane e il suo padrone che lo detesta e dimostra il suo disprezzo per i suoi comportamenti animaleschi contraddistingue il testo di Benvenuti; tutt’altra storia quella di Chiti, dove un padre umile cerca in tutti i modi di convincere il figlio a studiare e a intraprendere una buona strada, ma alla fine il figlio sfugge al volere del padre uccidendosi. I gesti dell’attore appaiono concitati, poiché essi assecondano, per non dire rafforzano, la comicità scaturita dal linguaggio e dalle parole usate; le pause dilatate da Benvenuti, durante tutta la sua interpretazione, permettono di esaltare i momenti comici. Grazie alla sua voce profonda e poco limpida, l’atmosfera acquista una nota patetica e di desolazione, mentre il finale a sorpresa (il protagonista per l’esasperazione invece di uccidere il cane stermina la sua famiglia) suscita solo sorrisi amari. Ad un primo esame sembra che l’attore si sia servito dei testi di Chiti per comodità, cioè per completare quell’ora e poco più di spettacolo che il suo monologo soltanto non riusciva a coprire. Purtroppo le note di demerito non mancano, anzi è bene metterle in luce: l’acustica del teatro si è rilevata alquanto scarsa e ciò è andato a discapito della buona comprensione dei testi proposti; mi riferisco in particolar modo alla gradinata del teatro, dove il suono di tanto in tanto si perdeva, anche a causa dell’articolazione e della scansione non sempre chiarissime da parte dell’interprete. Un'altra nota negativa riguarda l’illuminazione scenica che non sempre ha agevolato i movimenti del protagonista, come i ritardi verificatisi nei cambi di luce (ad esempio, quando Benvenuti si alza dalla sedia per raggiungere il proscenio che ancora deve essere illuminato). Questi difetti che possono apparire, a prima vista, minimi ed insignificanti, spesso però si ripercuotono sulla resa di un’intera performance, così da penalizzare il suo risultato finale come in questo caso appunto. Bisogna riconoscere però il talento dell’attore e la sua ormai consolidata esperienza sul palcoscenico.

Recensione di Gianluca Arena

Comici fatti di sangue: senza alcun dubbio un titolo ambiguo, ma che sicuramente delinea una volontà di realtà. Ormai noto per i suoi film, sceneggiature e interpretazioni, Alessandro Benvenuti, classe 1950, inscena tre racconti, scritti a quattro mani con Ugo Chiti (ormai vecchio collega incontrato con Benvenuti in casa Gori), esprimendosi da subito con un sorriso triste ma “simpatico” e confidenziale: la prima battuta (“mi si presti un accendino per favore”) è segno immediato di un bisogno di vicinanza tra il pubblico e l’unico attore/regista interpretante. La formazione cabarettistica anni ‘70 di Benvenuti non viene quindi celata, e delinea buona parte dell’ora e mezza di spettacolo, alternandosi, in tre moduli, coi racconti “d’umorismo tragico” al leggio. Racconti che narrano storie dalla comicità amara e severa. Una comicità che forse non vuole alienare dalla realtà e che per quanto possa far ridere e possa apparire “popolana”, coi tipici modi di dire e fare toscani, energici e divertenti, non vuole però creare un mondo vanitoso, limitato a sé stesso, ma un mondo saggio, che ci fa riflettere e che ci interessa, che non cerchi i colpevoli ma solo le colpe, dove la spiritosaggine e la vitalità devono fare anche i conti con la situazione circostante, sarcastica e desolata. L’attore si esprime gesticolando moltissimo in modo dinamico e rapido, con numerosi cambi di tono e voce per interpretare i vari personaggi dei racconti, tutti disperati, rancorosi e insoddisfatti. Purtroppo, il tipo di parlantina, anch’essa molto veloce, che l’attore utilizza, e che crea un grandioso effetto nevrotico/paranoico, si rivela in certi punti piuttosto forzata: molte delle battute e parte dei monologhi risultano difficili da comprendere. Le capacità di Benvenuti però riescono sempre a non impedire il sorriso e l’applauso, per tornare poi nel dramma con tenerezza, passando dal comico al tragico, per tre volte, aprendo gli occhi verso la realtà e al pubblico che rimane attento. Interessato agli aspetti più dolorosi della comicità, o a quelli più comici della tragicità (ma forse più la prima che la seconda), l’attore/regista toscano utilizza una scenografia povera e essenziale: non chiede altro che una sedia e un leggio con una piccola luce in scena. Non ci sono musiche, non ci sono strutture imponenti, non ci sono immagini visive (talvolta le luci cambiano tra un intermezzo e l’altro), ma tutto è incentrato su di lui e su quel buio, su quell’ombra che parla, su quelle mirate parole che producono sorrisi amari, e quella sagoma poco illuminata che quasi non rivela, o non vuole rivelare, nemmeno il suo volto. Creando una immaginaria speranza per una maggiore chiarezza, che però non viene assecondata, l’effetto finale porta dunque a un sorriso di dubbio, di smarrimento, a un bisogno di “luce” che scacci il “nero”, riflettendo metaforicamente le condizioni del quotidiano periodo attuale.

Recensione di Gemma Salvadori

E’ la voce stessa di Benvenuti che profetica scivola sotto il sipario chiuso ad accogliere lo spettatore e ad informarlo sull’essenza stessa dello spettacolo per poi, infine, consigliare di spegnere i cellulari.
Il sipario si apre su una scenografia decisamente essenziale: una sedia e un leggio che si stagliano nel nero delle quinte tradizionali. Vicini poiché disposti l’uno accanto all’altro ma distanti per le atmosfere che in queste sedi prendono vita.
Tutto è affidato alla luce che ricopre un ruolo fondamentale all’interno dell’intera performance e che, orchestrata in uno studiato montaggio, dà sfondo alle vicende narrate.
Un’Illuminazione di carattere scenografico  affila il volto dell’attore, enfatizzando la sua corporatura, estremizzando le parole che assumono ancora più spessore nei rischiarati ritagli circoscritti.
Prima che la rappresentazione prenda effettivamente vita Benvenuti si affaccia sul proscenio, interagisce con il pubblico, spiega e illustra quello che sarà uno spettacolo di doppia natura: un ibrido tra un reading e un one man show, poi inizia la sua performance dalle tinte noir.
Storie di un’umanità rovinata, contagiata da nevrosi collettive, raccontate senza indugi e senza ipocrisia.
La struttura si articola tra il testo ideato dallo stesso attore e letture nate dal sodalizio con Ugo Chiti: cinque quadri, cinque monologhi intrisi di un umorismo decisamente nero; esempi di un ridere doloroso che il titolo stesso dello spettacolo ci anticipa.
Nel passare dalla comicità al dramma non c’è distacco ma un quieto fluire, poiché ogni maschera a cui Benvenuti dà vita e voce scivola inesorabilmente verso la caduta.
Nel corso della messa in scena viene fatta conoscenza di un uomo: marito e padre che, confidandosi, racconterà la sua discesa verso gli inferi causata da una quotidianità esasperata e sempre più difficile da subire. Sarà proprio questo personaggio, che per sopravvivere “forse avrebbe dovuto avere un altro carattere”, ad iniziare e a concludere lo spettacolo chiudendo il cerchio.
Alla narrazione principale si alternano i ritratti creati da Chiti: quello di Rutilio Canova padre che, spinto da un insano amore, cerca patologicamente, attraverso il figlio, il proprio riscatto personale e quello di Silvana, donna in coma, che prima di spegnersi elenca al marito che dorme al suo capezzale tutti i torti che le ha fatto subire.
Benvenuti riesce a sfruttare la potenzialità del teatro dialettale e a giocare con le cadenze del linguaggio toscano adoperato in ogni sua sfumatura nel raccontare storie di nera saggezza contadina e cupa consapevolezza borghese e nel mettere in scena caratteri familiari e paradossi identitari. La sua è una comicità corrosiva la quale, oltre ad un dire in bilico tra licenziosità e morigeratezza, trova la sua forza nella presenza stessa dell’attore, nel gesto e nel dire nevrotico, nella sua espressività fisica di gigante apparentemente buono ma segretamente pervaso da una nera malinconia.
Uno spettacolo, in sostanza, capace di raccontare ingombranti e letali ossessioni: una parabola di esistenza condannata che cola insieme al sangue versato dietro un paravento di risa destinate a farsi consapevoli.

Recensione di Giulia Paoli

La voce off che ricorda ai “gentili spettatori” di spegnere i cellulari non è la solita voce metallica registrata, è profonda e toscana: ancor prima dell’alzarsi del sipario, Benvenuti si materializza burlando gli spettatori con la sua ironia. La comicità, realistica e melanconica, è quella familiare dell’attore, fatta dalle situazioni più che dalle battute. Con la sua inflessione toscana, con un linguaggio sempre forbito, anzi volutamente elegante e arcaico per provocare ancor più ilarità, racconta squarci di vite e quotidianità, prototipi di personaggi in cui ognuno di noi può rivedere familiari, amici, vicini e soprattutto se stessi e che non ti sorprenderesti di incontrarli in giro per Firenze o Prato o Siena. C’è spazio anche per i colpi di scena di racconti narrativamente ben strutturati e anche per quello inaspettato e spiacevole di un interprete non sempre chiaro nella dizione.
L’attore, noto per esser stato parte del trio comico i Giancattivi con Francesco Nuti e Atina Cenci e per la trilogia in collaborazione ancora con Chiti di Casa Gori, è inizialmente seduto su una sedia sul fondo destro della scena, illuminato dall’alto e immerso in una oscurità totale. Lo spettacolo è suddiviso in cinque parti scandite dal buio: tre monologhi corrispondenti ai capitoli della storia di Benvenuti, inaspettata confessione del protagonista ad un psicologo sul perché ha ucciso la famiglia, che inframezzano due letture di Chiti su di un bottegaio con la fissa del figlio studioso e su di una donna in coma che racconta il rapporto col marito. Ad ogni cambio scena, l’attore modifica posizione, abito e voce insieme alle luci. Dapprima parla in modo scattoso ed altalenante, sia i gesti che la voce richiamano la puntigliosità, la rabbia repressa e il fastidio profondo del personaggio, poi diventa gretta e strascicata per Rutilio Canova e acuta per Silvana. I personaggi vengono animati dalla voce e dai gesti – precisi nonostante limitati dal leggio ed efficaci nel loro esser quasi stereotipati – come da un soffio vitale che li rende umani e realistici, essi sembrano prender vita da Benvenuti ed in Benvenuti, che li veste perfettamente. Riesce così bene, da sopperire – quasi – alle difficoltà di comprensione del testo dovute alla pronuncia sorprendentemente non sempre chiara.
Nella semplicità di una struttura di per sé lineare ed elementare, la drammaturgia risulta compiuta. Benvenuti riesce a legare i tre racconti con un filo rosso che non si limita ai contenuti e allo stile, ma va a creare nel modo che ha di interpretarli un sostrato comune, fatto di parole non dette, emozioni, pensieri, arcaicità. Sono storie che per chi, come il sottoscritto, è nato e cresciuto in Toscana hanno un profumo e un sapore di passato, di radici, di tradizioni, di nonni. Sono storie che narrano fatti di sangue in maniera comica e che rievocano con il titolo anche l’umanità del comico: il riso è tipico dell’uomo a differenza degli altri animali. E anche Benvenuti non può fuggire la sua umanità: è un comico fatto di carne e come tale non può sempre raggiungere la perfezione, ma nonostante le piccole sbavature riesce comunque a far emergere l’ intensa emotività e la quotidianità familiare che caratterizzano i suoi lavori.