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Mettere in scena la drammaturgia classica resta un esercizio di ermeneutica artistica di straordinaria profondità: la distanza che ci separa dai testi dei drammaturghi antichi è ogget-tivamente incolmabile e questo li rende fecondissimi in ordine alla possibilità di esplorare, at-traverso la pratica viva del teatro (che è contemporaneo o non è), le profondità e le infinite possibilità dell’umano. Non si mette in scena semplicemente un testo antico, ma la relazione tra quel testo e un artista (un regista, un ensemble, un drammaturgo) contemporaneo: quanto più sarà consapevole, profonda e meditata (nel tempo) questa relazione, quanto più saprà evi-tare la trappola ideologica di ogni tipo di neoclassicismo, tanto più sarà denso di significazioni lo spettacolo allestito e capace di parlare all’uomo d’oggi dell’uomo d’oggi. Da questo punto di vista gli spettacoli che ogni anno vanno in scena nel Teatro greco di Siracusa, nel contesto delle “Rappresentazioni classiche” dell’Istituto nazionale del dramma antico, continuano a rappresentare un punto di riferimento indiscusso e, malgrado la sensibile diversità di livello degli allestimenti che si susseguono ed alternano negli anni, indiscutibile. Quest’anno, nel contesto della XLIX stagione Inda, è la volta delle tragedie sofoclee “Edipo Re” (traduzione di Guido Paduano) e “Antigone” (traduzione di Anna Beltrametti) e della commedia “Le donne in assemblea” di Aristofane (traduzione di Andrea Capra), che hanno debuttato ri-spettivamente l’11, il 12 e il 13 maggio e andranno in scena a giorni alterni fino al 23 giugno (la commedia è in scena ogni lunedì fino al 17 giugno).

L’“Edipo re” diretto da Daniele Salvo, si dispiega con compatta assertività in un im-maginario contesto post moderno di devastazione e morte: le suggestioni esterne sono innu-merevoli, eccessive, e soprattutto quelle cinematografiche appaiono trasparenti e poco pro-blematizzate. Qui basti situarle tra i generi del cinema horror e fantasy. Su questo abbrivio tonale si muove lo spettacolo che vede in scena Daniele Pecci (un Edipo, giovane, energico, capace di pathos, ma privo di una sua precisa caratterizzazione), Laura Marinoni (Giocasta), Maurizio Donadoni (Creonte), Ugo Pagliai (Tiresia), Mauro Avogadro (servo di Laio, sacer-dote), Francesco Biscione (nunzio), Melania Giglio (spettro della sfinge), Graziano Piazza (secondo nunzio). Attori esperti e di solida presenza scenica, anche se particolarmente con-vincenti sono apparsi Donadoni e, con la sua generosa sensualità, la Marinoni, mentre il pur grandissimo Pagliai è sembrato interpretare più sé stesso che Tiresia. Scene e costumi sono di Maurizio Balò, musiche di Marco Podda (interessanti per la loro sensibilità contemporanea), movimenti di Antonio Bertusi. Il coro dei vecchi tebani è reso da attori (Antonietta Carbonet-ti, Andrea Pietro Anselmi, Raffaele Berardi, Marco Bonadei, Massimo Cimaglia, Simone Ciampi, Michele Costabile, Elio D’Alessandro, Michele Digiacomo, Adriano Evangelisti, Alessio Genchi, Marco Imparato, Francesco Laruffa, Giancarlo Latina, Raffaele Latagliata, Sergio Mancinelli, Marcello Montalto, Alessandro Romano, Andrea Francesco Romero, Giu-liano Scarpinato, Gianluca Ariemma, Antonio Bandiera, Carmelo Alù) che indossano ma-schere di gomma di fattezze grottesche, simili eppure tutte diverse: è forse la cosa migliore dello spettacolo e partecipa, come è giusto, organicamente e dinamicamente all’azione. Non possono tuttavia non rilevarsi, anche per il coro, alcune cadute di stile come la rotazione “sufi” dei coreuti che appare del tutto gratuita nell’economia dello spettacolo. Nel complesso si tratta di un lavoro concepito con l’impegno e la serietà che contraddistinguono questo regista ma che non affronta con la dovuta profondità e/o chiarezza il nodo artistico di fondo non tan-to del testo sofocleo (il dolore infinito connaturato alla scelta coraggiosa della conoscenza), quanto della consapevolezza (meditata con tempi giusti, e quindi lucida, presente, coerente-mente operativa) della possibilità che questo testo possa ancora parlarci. Certo appare evi-dente il lavoro serrato sul testo sofocleo, ma questo da solo non basta giacché, ovviamente, il linguaggio dello spettacolo include e oltrepassa, e in qualche modo persino riscrive, il testo drammaturgico e quindi, senza un’idea di regia chiara e linearmente perseguita, le soluzioni sceniche che possono essere più o meno interessanti (il carro dei monatti a inizio di spettacolo, le carcasse dei morti per la peste disseminate sulla scena, i costumi neri dei guerrieri tebani che sanno tanto di immaginario “ninja”, il bacio sensuale molto rimarcato tra Giocasta ed Edipo e più avanti l’abbraccio materno e quasi da “pietà” figurativa tra i due), finiscono spesso col ridursi al rango di trovate autonome e prive di reale sviluppo.

Una consapevolezza che invece appare più chiaramente delineata nel lavoro di Cristina Pezzoli su Antigone: si tratta di uno spettacolo rigoroso, pulito, quasi minimalista, capace di evidenziare il percorso intellettuale che la regista ha compiuto nel confrontarsi col testo sofo-cleo, con la sua oscura lontananza, senza dimenticare d’essere una donna del nostro tempo e senza provare a colmare lo iato di quella radicale alterità con facili scorciatoie spettacolari e/o patetiche. Non è un percorso facile ovviamente, le ideologie neoclassiche e la tradizione teatrale sono freni potenti, e non tutto va al posto giusto. In scena ci sono Natalia Magni (l’ombra di Giocasta), Ilenia Maccarrone (un’Antigone convincente, seppure un po’ acerba), Valentina Cenni (Ismene), Maurizio Donadoni (ancora Creonte e ancora padrone assoluto della scena), Francesco Biscione (corifeo), Enzo Curcurù (corifeo), Oreste Valente (corifeo), Simonetta Cartia (corifea), Gianluca Gobbi (decisamente comico, fino a un inappropriato macchiettismo, nel ruolo della guardia), Matteo Cremon (un po’ legnoso nel ruolo di Emone), la grande Isa Danieli (un Tiresia costruito su un evidente rimando alle streghe di Machbet), Paolo Li Volsi (il messaggero), Elena Polic Greco (Euridice). Le scene sono ancora di Balò, i costumi di Nanà Cecchi, i movimenti di Walter Leonardi e le musiche (con scelta coraggiosa, ma poco sfruttata, da parte della regista e della stessa Inda) di Stefano Bollani. Il coro (Francesco Biscione Oreste Valente, Alessandro Aiello, Raffaele Berardi, Enzo Curcurù, Lorenzo Falletti, Sebastiano Fazzina, Sergio Mancinelli, Massimo Tuccitto, Eugenio Maria Santovito, Giuliano Scarpinato, Giuseppe Orto) appare invece poco congruo rispetto al rigore del resto dello spettacolo: sembra esser separato e non avere un nucleo forte di ispirazione ed ancora, a partire dai suoi stessi costumi (le cui fogge e colorazioni non si adeguano al rigore dello spettacolo), non riesce a respirare e muoversi col ritmo delle musiche, pur drammaturgi-camente sensibili, di Bollani. Non è un difetto da poco ed anzi è un vero peccato perché, per il resto, lo spettacolo appare, come si è detto, convincente e capace, già dal prologo, ricavato dalle “fenice di Euripide, e affidato a un fantasma di Giocasta, che ripercorre con esemplare linearità di recitazione l’antefatto della tragedia, già dallo spostamento del focus su un Creonte che ragiona e accoglie il peso tragico della sua (nostra) adulta e difficile respon-sabilità politica, piuttosto che su Antigone con la radicalità giovanile della sua scelta. Così come appare interessante e felicemente problematica la forza attribuita a Ismene: non più pavida fanciulla di fronte al potere, ma decisa già da subito nell’accettare la sua subalternità.

Ben riuscita e convincente invece la prova di Vincenzo Pirrotta nella direzione delle “Donne in assemblea” di Aristofane. In scena Anna Bonaiuto, nel ruolo centrale di Prassa-gora, lo stesso Pirrotta (un Blepiro, eroe comico potente ma sempre misurato) e poi Doriana La Fauci, Carmelinda Gentile, Elena Polic Greco, Enzo Curcurù, Alessandro Romano, Anto-nio Alveario (bravo), Melania Gigli, Simonetta Cartia, Sara Dho, Antonietta Carbonetti, Cle-lia Piscitello, Amalia Contarini; le scene sono ancora di Balò, ma assai alleggerite rispetto a quelle delle tragedie, i costumi (molto belli e colorati, capaci di veloci cambiamenti di tono) di Giuseppina Maurizi, le musiche ariose e mai fuori luogo sono di Luca Mauceri (ormai un punto sicuro di riferimento per il teatro di Pirrotta)e i movimenti, infine, della brava coreo-grafa siracusana Alessandra Fazzino. Un allestimento intelligente, capace di tenere insieme con naturalezza, equilibrio ritmico e colorata levità, lo sfrenato comico basso-corporale tipico del grande drammaturgo ateniese e un consapevole aggancio della sua potente vis politica, polemica e utopistica, con la nostra realtà: complici sono certo la forza interpretativa e il sicuro rigore della Bonaiuto anzitutto, ma anche degli altri attori, mentre decisiva appare la capacità di Pirrotta di auto-governarsi (senza esagerare nell’utilizzo, pur presente e percepibile, del suo consueto linguaggio teatrale tratto dal cunto e dalla tradizione dialettale siciliana) e di governare, divertendosi e divertendo, la complessa e cangiante macchina scenica. Unica pec-ca, qualche eccesso un po’ ruffiano di politically correct (il “se non ora quando” che diventa lo slogan delle donne nel fuoco della ribellione contro i maschi, i burqa che ne imprigionano vitalità, bellezza, saggezza), che probabilmente sarebbe spiaciuto alla cattiveria comica di A-ristofane ma che il pubblico ha mostrato di apprezzare.

Foto di Maria Laura Aureli (Edipo e Antigone) e Franca Centaro (Prassagora)