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Riflessioni sulla scrittura di testi linguistici. Prima parte. Nostos: Figura multiforme e misteriosa, Ulisse assomiglia a Ermes e Atena, le due divinità che lo proteggono. Ha una natura molteplice e versatile, come la loro. Può assumere tutte le forme, prendere tutte le strade, tendere verso tutte le direzioni in modo sinuoso e avvolgente. La sua mente è ricca di colori e di geroglifici, come un arazzo, un tappeto o un quadro. È artificiosa come un’opera d’arte, intrisa di magmi notturni e segnata da costellazioni luminose, velata e misteriosa come la rotta dei ladri, dei mercanti e degli amanti (Carlo Diano).

Ulisse è anche un soldato, ma non ama molto le armi e le battaglie. Gli altri guerrieri sognano emulazioni e trionfi. Egli predilige l’opera artigiana del muratore, del marinaio, del falegname e dell’artista, come se la sapienza artigiana si fosse raccolta nelle sue mani prodigiose. Più che pestare la terra del campo di battaglia naviga nel mare magnum delle invenzioni, macchinazioni, furti, mistificazioni, trasformazioni continue. Possiede l’arte della seduzione. Percepisce, vede, racconta e diventa una visione agli occhi degli osservatori. È sincero e mentitore, abile costruttore e ladro, ma la sua doppiezza non ha valenza morale, è piuttosto di natura artistica. Con questa ambiguità, radicata nella dualità della natura e della cultura umana, principio fondante di ogni verità che si nutre anche del valore opposto e contrario della non-verità, Ulisse rivela di essere l’artefice di una precisione superiore che lo pone accanto a Penelope come fratello gemello. Ulisse e Penelope sono fatti della stessa pasta. Sul cavallo e sulla tela costruiscono la loro fama, ma l’invenzione del cavallo di legno non va considerata il capolavoro di Ulisse. È una piccola cosa. È un’astuzia. Il vero capolavoro di quella mente labirintica e multiforme sta nella sua capacità di andare al di là dei limiti della realtà, oltre i confini del visibile e del palpabile, in quel regno di cui gli uomini conoscono solo poche cose e dove si possono trovare soltanto risposte individuali.


Il cuore e la mente.
Ulisse è il navigatore dallo sguardo duro e dal cuore tenero, il cultore della ragione lucente e del pianto irrefrenabile, discendente dell’incantatore notturno chiamato Ermes: lo stregone, il traghettatore, il dio che possedeva la facoltà – sconosciuta a Ulisse – di portare il sonno sugli occhi degli uomini. E quando il viaggiatore arriva
sull’isola di Circe, trova una ingannatrice più potente di lui. Con la maga ha un rapporto così profondo che rischia di perdere, prima e unica volta, la memoria e il desiderio di tornare nella sua terra di origine. Ci vuole un anno perché i compagni lo convincano a riprendere il viaggio verso Itaca ed è con l’aiuto di Circe che riesce a superare le insidie dei mostri marini e l’incanto demoniaco della poesia. I vagabondaggi nel Mediterraneo, gli alti e bassi della fortuna, gli ostacoli da superare non sono altro che la materializzazione della forza che lo spinge a considerare concretamente l’altro di sé e da sé.

Procedendo come un naufrago, Ulisse trova la sponda solo nel dio che ha dentro di sé. Lottando contro il dolore della mente e del corpo, è attraversato da così tanti orrori e stupori che alla fine può dire di aver imparato l’arte del sopportare le sofferenze del mondo e l’arte di raccontarle, ogni volta in un modo diverso, ogni volta suscitando l’incanto degli ascoltatori, che hanno un solo desiderio, rimanere svegli per tutta la notte. E quando pensano di aver ascoltato l’ultima parola di quell’avventura, Ulisse introduce altri fatti, altri avvenimenti, provocando una nuova eccitazione degli animi. Maestro d’inganni e di frodi, il più grande artigiano della storia umana ha avuto alla sua scuola gli artisti più illustri della letteratura e del teatro. E, rimesso piede nella sua Itaca, dimostra di possedere anche la maestrìa del grande attore. Come fabulatore inventa storie affascinanti e le mette a disposizione dell’attore che è, camuffandosi da mendico e ostentando la necessità di un ventre insaziabile. Giura e spergiura come un fanfarone ubriaco. Racconta versioni sempre nuove della sua storia, sempre più vicine alla realtà, ma nessuno può escludere che i momenti di maggiore finzione coincidano con il massimo tasso di disvelamento delle cose più intime della sua esperienza umana.

I segni e la pluralità del linguaggio.
Quando ho cominciato a scrivere per il teatro non tenevo in buona considerazione le cose che oggi considero fondamentali. Mi dannavo a organizzare le parole in battute e le battute in scene dialogiche di natura mimetica, pensavo di dover scrivere per gli spettatori, tenevo in grande considerazione il messaggio dell’opera e lo ancoravo alle mie idee politiche. Cosa dice questo personaggio, mi chiedevo continuamente. E cosa gli risponde quest’altro? Battute e didascalie descrivevano pensieri, sentimenti, sensazioni e psicologie con il supporto superficiale di gesti, movimenti e qualche rarissima azione fisica. Usavo solo la parola per comunicare: la parola scritta che l’attore se stesso avrebbe dovuto trasformare in parola parlata, secondo quella cultura assorbita e metabolizzata nella filodrammatica cittadina e nel gruppo teatrale universitario. Esauritasi la spontaneità naturale, come attore me stesso entravo in crisi dopo pochi giorni di prove: scivolavo sulle battute senza sapere quello che stavo dicendo. Come dico queste parole? Qual è l’intonazione giusta? Dove metto le mani? Quale atteggiamento devo assumere? Come passo da questa posizione a quella successiva? Ero talmente presente a me stesso da provare orrore di me stesso. Mi  ci è voluto molto lavoro e molto allenamento per non chiedermi più come si dicesse quella battuta, spostando l’attenzione dal come alla cosa, dal dire al fare, cioè all’azione fisica. “Il teatro povero “ (di Grotowski e Barba) è stato forse il libro più importante della mia vita, quello che ha aperto a me e a tanti altri artisti della mia generazione nuove possibilità di ricerca e di lavoro. Ma oltre a questo libro è stato importante scoprire, attraverso lo studio della semiotica, che tutto poteva essere buono per comunicare. Il sistema variegato di segni (verbali e non verbali) è stata una grande scoperta e il potenziale dei segni mi si è presentato all’improvviso come quella grande cosa che è il mare, al di là del finestrino di un treno in corsa. Una fortuna. Una ricchezza che non sapevo di possedere. I segni li ho immaginati come i prodotti di un mercato ortofrutticolo. Avevo a disposizione un mercato gigantesco con tutti i frutti del mondo e per molti anni non avevo fatto altro che scegliere sempre lo sesso frutto. Adesso, quando scrivo, ripeto mille volte il gesto virtuale del recarmi al mercato dei segni: scelgo quelli che mi servono e li metto insieme. Li seleziono e li combino in base alle necessità artistiche, in una prospettiva d’intreccio tra comunicazione chiara e comunicazione oscura, in funzione strategica della forma di teatro totale prescelta (prosa, teatro-musica, teatro-danza, teatro dei luoghi, eventi intermediali, parate, percorsi teatrali, performance…).

Il metodo delle azioni fisiche applicato alla scrittura di un testo linguistico, l’arte combinatoria dei segni verbali e non verbali, l’arresto della dialettica mi hanno liberato dal vincolo ideologico e mi hanno cambiato la scrittura. Ero povero, sono diventato ricco.     

Nel contesto del ragionamento sul sistema dei segni - che pongo come uno dei fondamenti della scrittura drammaturgica nella prospettiva del teatro totale -, mi sembra opportuno fare due riflessioni. Una sulle immagini, a significazione del valore espressivo che devono assumere nell’atto in cui vengono messe in preventivo come segni visivi della tessitura drammaturgica e di rimbalzo come “azioni al lavoro” (secondo la dizione di Barba) della scrittura scenica. E l’altra riflessione sulle tracce, a esemplificazione di quella comunicazione che è possibile determinare nel luogo umbratile dove le immagini svaniscono, oppure i suoni si dissolvono e muoiono.

Così come non esiste lo spirito e la lettera di un testo teatrale, non esiste lo spirito e la lettera di un’immagine fissa o in movimento. Lo spirito è la lettera. Lo spirito è l’immagine. Se prediamo per buono quello che dice Rudolf Arnheim, dobbiamo ritenere che l’opera è analizzabile attraverso una serie di principi, quali l’equilibrio, la forma, lo sviluppo, lo spazio, il movimento, la dinamica e l’opposizione delle forme. Ma anche attraverso le azioni fisiche, meglio attraverso il ritmo e l’energia delle azioni fisiche, e il tono delle parole che le accompagnano. Ritmo, energia e tono concorrono in modo significativo a parlare al cuore a alla mente degli uomini e - come racconterò in un’altra occasione – a comunicare anche con gli animali.  

Torniamo alle immagini: alla natura delle immagini e alla incidenza che hanno sul processo della comunicazione. Immaginiamo di utilizzare - per esempio a supporto di un evento intermediale -, le immagini di alcune donne africane, quelle che ho tra le mani. Molti colori. Molti effetti di post-produzione. Apparentemente bellissime. Indago. Si tratta di donne invisibili, dimenticate da Dio e dagli uomini. Le donne invisibili  hanno occhi, ma non sono osservate. Hanno parole, ma non sono ascoltate, non sono parlate. Sono presentate come nuvolette colorate in un cielo meraviglioso senza terra. Macché, il sorriso non le salva dalla vita. Vengono da  territori dove l’albero è un essere vivente degno di grande considerazione, dove l’acqua è un elemento prezioso di vita. Vengono da luoghi dove la bellezza è morta, dove la speranza in un futuro migliore è fioca. Questa è la verità disattesa. E persino l’autore delle foto non vede le donne invisibili, vede se stesso e ascolta il proprio piacere estetico. E così le trucca. Le traveste. Le sottopone ad un volgare abbellimento. Per questo restano (socialmente) invisibili. Non sono viste come cuori e menti palpitanti che aspirano a sottrarsi alla emarginazione o allo sfruttamento, ma come creature liberate dal peso della vita materiale. Le loro mani non si uniscono idealmente e  solidalmente ad altre mani. Non mettono insieme i loro occhi, le loro parole e i loro talenti. Se lo facessero, rifarebbero il mondo. Se mettessero insieme tutto questo, regalerebbero un cuore nuovo al mondo. 

Osservo attentamente e mi accorgo che sono costretto a lottare contro l’immagine. Così compio il gesto arbitrario di cancellare intuitivamente il belletto e scopro il vuoto della bellezza estetica, perché lo sguardo dell’autore non c’è, non c’è il suo corpo/mente, non c’è il sangue che si fa pensiero e il pensiero che si fa sangue. C’è piuttosto un sapere posticcio, una ideologia fittizia e consolatoria. Non c’è la  tecnica al servizio della comunicazione, ma il tecnicismo della tecnica che falsifica le donne invisibili, allontanandole mille miglia dalla realtà, deprivandole della  essenza materiale e immateriale della loro condizione. L’immagine le nasconde invece di rivelarle. Le nega invece di esaltarne il desiderio e l’anima. Le trasforma in favolose principesse, invece di rivelare l’utopia concreta del progetto che hanno nel cuore e nella mente. La fotografia è dunque puro involucro. Involucro meravigliante che non produce sorpresa, che non stimola lo sguardo perché manca lo sguardo e non stimola l’ascolto dei loro silenzi perché non c’è ascolto: non c’è sguardo e non c’è ascolto perché non c’è comportamento poetico. E quando non c’è poesia non c’è teatro, non c’è arte. C’è una bella immagine da appendere in un salotto chic o da mostrare in una conferenza di sociologia, un atto di solidarietà ipocrita, un compiacimento autoreferenziale, un trucco che strizza l’occhio alla brutalità del mercato, una raffinata mistificazione. E sotto la cipria scopro il doppio inganno: quello subìto dalle donne invisibili e quello subìto dall’osservatore.

La dualità della natura e della cultura umana.
Dopo la scoperta  della contesa come luogo della creazione artistica, dove sfrigola la materia linguistica che determina la pluralità del linguaggio, la riflessione sulla dualità della natura e della cultura umana è stata per me fondamentale. Ha provocato uno scatto interiore che mi ha indotto a cambiare poetica e linguaggio. E l’uomo mi è apparso all’improvviso per quello che realmente è: plurale e indivisibile. Se una sola delle sue parti è ignorata, è ignorato l’uomo: questo è un punto fondamentale.

Parlare di teatro dovrebbe voler dire parlare di teatro totale, ma  l’aggettivo è diventato una specificazione indispensabile perché il teatro si è molto impoverito nel corso del tempo: è fatto di parole striminzite che descrivono tutto, anche l’indicibile: ha pertanto bisogno di essere arricchito e rinvigorito.  La dualità della natura e della cultura umana sta a indicare le due dimensioni dell’essere umano - materiale e immateriale, razionale e sensibile -, che sono alla base dell’atto totale dell’attore/danzatore, finalizzato alla produzione delle forme organiche. Sistema dei segni e lavoro sulle azioni fisiche in funzione dell’atto totale sono le questioni su cui si regge il processo della scrittura drammaturgica. Se è vero che con l’avvento dell’uomo della luce e con il dominio della ragione, l’uomo totale è diventato un fantoccio,  tornare ai primordi vuol dire recuperare il fondamento perduto della dualità che sta alla base dell’arte dell’attore/danzatore e preliminarmente del lavoro che svolge il drammaturgo.

La cultura materialistica e razionalistica dominante – cui fa riferimento molta drammaturgia contemporanea – trasforma il piacere in edonismo, confonde la ragione con la mente, prende in esame l’aspetto deterministico del detto e ignora la parte sensibile, emozionale e umbratile del non-detto. La meccanica della scrittura drammaturgica si configura come una manovra che stabilisce un’alleanza tra sfera mentale e sfera sensibile, che favorisce l’intreccio tra movimento del pensiero e movimento del desiderio. Ne consegue che solo escludendo l’ipotesi dell’uomo dimezzato (fatto a pezzi) si può escludere l’avvento di un’opera algida, quindi non vera.

Nell’ambito di questa premessa, occupa una posizione di centralità decisiva il metodo delle azioni fisiche applicato alla scrittura drammaturgica, essenziale per la scrittura del testo fisico (primo atto ) e del testo linguistico (secondo atto) da parte del drammaturgo; ma anche - di rimbalzo – per la scrittura del testo fisico da parte dell’attore/danzatore ( terzo atto), il quale con il concorso e il controllo del regista  autogestisce il processo organico per la creazione brusca di un altrove sulla terra. Scopo fondamentale: generare disorientamento, disordine, instabilità, con-fusione:  trovare un confine incerto tra illusorio e reale, tra dismisura e misura, tra incandescenza e controllo: condizioni fondamentali perché si realizzi il processo che oppone una strenua resistenza allo strapotere della ragione e rivela il potenziale animalesco dell’essere umano, che – se poco  serve nella vita – molto serve nell’atto della creazione artistica, quindi del testo linguistico.

Il luogo della contesa e la ri-creazione della realtà.
Come Ulisse, quanto cammino abbiamo fatto per tornare al punto da cui eravamo partiti! Là dove le cose conservano la differenza, là dove la verità si mostra in un rapporto teso con la non-verità, là dove verità e non-verità sfrigolano nel luogo della contesa e dell’unità dei poli costitutivi della cultura umana. In questo palintos armonie valori opposti e contrari s’incontrano carichi di tensione, coesistono senza annullarsi e creano una realtà addizionata di natura poetica. Si tratta di uno spazio fatto di segni, come ho già detto, dove la parola occupa una centralità riconosciuta, ma non esclusiva. Nel preventivare l’insieme dei segni e delle azioni fisiche a beneficio dell’attore/danzatore lo scrittore definisce, almeno in parte,  il  come della scrittura scenica. La miscela linguistica eterogenea che ne  scaturisce determina quella pluralità del linguaggio a cui ho fatto prima riferimento.

Tutti i segni (verbali e non verbali) si connettono al symbolon che apre verso la oscura verità (Franco Rella). L’incontro/scontro tra i poli costitutivi della chiarezza e dell’oscurità, del bene e del male, genera il sapere, che va inteso come produzione di senso, sapienza, pensiero, conoscenza e abilità; ma anche come mistero, enigma, sensazione, percezione, sangue, sentimento, poesia. Il nostro sapere di noi include come suo centro non solo un nucleo di sapere cognitivo, ma anche un nucleo di sapere percettivo e comportamentale che il materialismo e l’edonismo trionfanti mettono a margine. La patria dei nuovi produttori delle forme di comunicazione teatrale sta perciò nel luogo da dove sono partiti. Per questo nostos non occorrono piedi, cavalli o aerei intercontinentali. Ci vogliono facoltà che dipendono solo da  Dio, abilità che possono essere apprese con lo studio e il lavoro, e alcune consapevolezze particolari:  che il drammaturgo scrive per l’attore/danzatore (non per lo spettatore, al quale penserà il regista), che il lavoro sulle azioni fisiche è la metodica più avanzata che si conosca, che il sentimento è l’insieme delle azioni fisiche che lo costituiscono, che il mondo interiore è più esteso di quello esteriore. Mascherarsi per perdersi, perdersi per ritrovarsi,  camuffarsi per disvelarsi non sono giochi di parole, ma un modo concreto per alimentare una capacità di estensione la più oggettiva possibile. Sia il drammaturgo sia l’attore/danzatore per il quale scrive sono soggetti ad una dilatazione del corpo e a una dilatazione della mente che consentono all’uno e all’altro di entrare differentemente nella dimensione della soglia e di produrre le forme organiche.

Lo scrittore non imita. Non doppia la realtà, ma la ri-crea. Porta ad essere ciò che prima non c’era, lasciando che l’invisibile resti invisibile, che l’impalpabile rimanga impalpabile, non cedendo il passo a descrizioni che portano inevitabilmente alla morte dell’invisibile o dell’impalpabile. Ma come si fa a comunicare ciò che è invisibile e impalpabile? Questo è il problema. A questo problema non c’è una risposta che vale per tutti gli scrittori. Ciascuno drammaturgo deve trovare la sua personale risposta.

Se è vero che l’arte è la pratica liberata dalla menzogna di essere la verità, tornare ai primordi significa fare come Ulisse che fugge da Circe e da Calipso per tornare là da dove era partito. E facendo come Ulisse, il drammaturgo deve rallegrarsi della morte di Narciso per essere stato  amante di belle immagini. La bellezza, se c’è, sta nell’acqua torbida e fluttuante, perciò impura, da cui è nata Afrodite, non in quella trasparente e immobile, di pura apparenza, in cui si specchiava Narciso: una bellezza minacciata d’inconsistenza.

(continua)