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L’opera di Dennis Kelly, messa in scena dall’Accademia degli Artefatti al Piccolo Eliseo Patroni Griffi di Roma, esplora un dramma moderno e la conseguente speculazione mediatica. L’autore inglese costruisce il testo su interviste e fatti di cronaca giudiziaria reali. I dialoghi e i monologhi sono immediati, riorganizzati sulla base del materiale originale. Il testo di teatro/documentario racconta la storia di una madre accusata di aver ucciso i suoi due figli.
La trama si articola sulle vicende di Donna (Isabella Ragonese) accusata d’infanticidio e scagionata; suo marito (Matteo Angius), la madre Lyn Berry (interpretata dalla bravissima Francesca Mazza) che si serve del dramma familiare (perfino della morte per overdose del primogenito) per ottenere una vittoria politica; uno psicologo (Pieraldo Girotto), il quale teorizza la dubbia sindrome di Leeman-Keatley nell’intento di ottenere fama professionale, un giornalista (interpretato sempre da Angius) e infine, il documentarista Dennis Kelly (Francesco Bonomo).
Nell’incipit, Donna, posta alle spalle della platea mentre racconta la sua breve esperienza in carcere, compare in video sul palcoscenico.
Fabrizio Arcuri ricostruisce una dimensione ibrida in cui teatro e televisione si sovrappongono. L’amalgama delle differenti forme non è funzionale esclusivamente alla fruizione multidimensionale dello spettatore, ma è emblema della messa in scena.
L’impiego della telecamera è significativo, non soltanto nella sua essenza simbolica relativa allo scempio mediatico, ma principalmente per il suo utilizzo in scena. Sul proscenio è posta una carrellata laterale.  La camera riprende gli attori dal vivo, restituendoli sullo schermo posto sul fondale.  Si deduce, inoltre, un’operazione di editing.  Sullo schermo scorrono esterni che raccontano episodi passati e presenti delle vite dei personaggi.
Dove finisce la menzogna e inizia la verità? Il limite è labile. Il filtro prospettico che ci viene offerto è quello televisivo. La comunicazione ha in se l’ambivalenza subdola di chi cela e rivela, altera e dissimula. Le interviste e i talk show contrastano i momenti privati. Lo spettatore deve, pertanto, ricongiungere una sequenza di frammenti. Una sequenza, che nel tentativo di ricomporre un’identità, inevitabilmente la disgrega. Il ritmo è segnato, in particolare, dalle due principali figure femminili. Donna, diafana, assente, dissociata, trascina un corpo vuoto, quell’inequivocabile corpo in cui sono contemplate la vita e la morte. Lyn, madre che subisce più di una perdita, è splendente e agguerrita, dirompe e incalza. Tutti i personaggi perpetuano la mistificazione e incarnano la colpa. Tutti maneggiano la realtà a loro vantaggio. Il valore morale della vita si lega alla funzione che il soggetto assume all’interno del contesto sociale al quale è destinato.
È ciò che accade a Donna, cui non è concessa l’elaborazione della perdita e del lutto, poiché il vincolo materno la trascina, inerme, in un turbinio mediatico.
L’abbandono e l’infanticidio sono pregni di un’aura che evoca una punizione arcaica, hanno echi di trasmissione genetica. “Taking care of baby” proietta un’immagine esacerbata su cui incombe l’eterno ritorno. Allora, ci chiediamo se il bambino di cui prendersi cura non fosse difronte ai nostri occhi a dirci con tono abulico: “Sono molto contenta, davvero contenta, proprio contenta, davvero contenta, veramente contenta, son contenta”.

Taking care of baby
di Dennis Kelly
traduzione di Pieraldo Girotto
produzione  Accademia degli Artefatti – Teatro Stabile di Torino - Napoli Teatro Festival Italia
regia Fabrizio Arcuri
con Isabella Ragonese, Matteo Angius, Francesco Bonomo, Pieraldo Girotto, Francesca Mazza, Sandra Soncini
in video Vinicio Marchioni, Fiammetta Olivieri, Paolo Perinelli
materiali sonori Subsonica
luci Diego Labonia
video Lorenzo Letizia
scene Gianni Murru
costumi Valeria Bernini