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Ci sono questioni che è necessario trattare con consapevole prudenza e non per paura di dire la verità con coraggio e chiarezza o, peggio, per colpevole viltà, ma perché l’essenza di tali questioni s’intreccia inestricabilmente con altre questioni culturali talmente profonde e vaste da non tollerare nessuna superficialità anche se si dovesse essere in totale buona fede. La questione a cui ci riferiamo adesso è la terribile colpa della pedofilia ed in particolare della pedofilia esercitata in modo esecrabile da alcuni sacerdoti della chiesa cattolica e trattata con imbarazzo, se non talvolta persino sottovalutata, dalle stesse gerarchie ecclesiastiche. È una questione bruciante che non presenta solo un indiscutibile profilo penale, ma incrocia anche, nel suo livello più profondo e doloroso, la grande questione culturale della presenza della chiesa nel mondo. Che ruolo ha la chiesa nel mondo? È ancora viva la sua presenza? Che rapporto deve avere con le leggi degli uomini la chiesa che è, strutturalmente e contemporaneamente, santa perché fondata da Cristo e peccatrice perché fatta dagli uomini? C’è, o può esserci, un livello di peccato e di reato (e la pedofilia è davvero quanto di più violento può concepirsi), oltre il quale la chiesa può perdere il suo statuto “mistico” e oggettivamente azzerare il suo ruolo nella storia dell’umanità? Soprattutto a quest’ultima domanda, un cattolico probabilmente risponderebbe di no, mentre un laico (o un cattolico che, prete o no, affrontasse con sana libertà questa ripugnante faccenda di violenza sui bambini) la troverebbe totalmente irrilevante dal punto di vista della necessaria severità della giustizia umana. Eppure questa serie d’interrogazioni non è affatto oziosa per interpretare l’atteggiamento di grande prudenza usato dalla chiesa e da questo Papa nel trattare tale fenomeno. E crediamo che questa prudenza non sia solo saggia, ma sia anche culturalmente doverosa se, a trattare questo turpe evenienza, sono degli artisti: l’arte, infatti, oltre a denunciare (ché denunciare, o indignarsi, talvolta può esser persino facile) deve provare a leggere i segni della storia e a porre domande serie se non riesce a dare delle risposte. Tutto questo vien fatto di pensare dopo aver visto il debutto a Palermo nel contesto del “Palermo teatro festival” (al Teatro Montevergini, venerdì e sabato 5 e 6 novembre, con in scena Filippo Luna, Alessandro Romano e Marcello Montalto) di “Sacre-stie”, l’ultimo spettacolo di Vincenzo Pirrotta. Uno spettacolo solido, potente, esatto nel ritmo e nelle scene (molto belle, di Rosalba Corrao), denso di significati, severo per la durezza con cui Pirrotta scava nella storia d’un importante cardinale, ribaltandola quindi nella sordida vicenda di violenza di un prete pedofilo su un bambino che da adulto, prete a sua volta e sacerdote nella stessa diocesi del Cardinale, si vendicherà. Lo spettacolo è notevole e, se Filippo Luna conferma le sue importanti doti d’interprete, vi sono fragilità ch’è doveroso esplicitare proprio in nome di quella necessaria prudenza di cui si diceva prima: anzitutto il complessivo tono di denuncia (una denuncia diretta fatta di nomi, fatti, documenti) che non appare necessario, giacché questo turpe fenomeno è già stato chiaramente svelato, denunciato ed è stato condannato pubblicamente e giustamente il silenzio della chiesa (dalla politica, dall’etica pubblica che si esprime nei media, nella saggistica, nel cinema); quindi, l’inutilità dell’inserto in dialetto siciliano che non aggiunge nulla all’economia di quanto accade in scena se non la firma stilistica di Pirrotta, come pure l’inutilità della bellissima canzone Paloma che, seppur presente nel film “Parla con me”, qui indirizza il pubblico a pensare non tanto alla purezza profanata del bimbo violato, quanto all’Almodovar (scontato) della “Mala educacion”; infine la scelta poco felice (sopratutto di questi tempi), anche se davvero in totale buona fede e in un certo senso persino indice di libertà, d’accostare alla posteriore relazione omosessuale dell’ormai maturo cardinale col segretario, la verità bruciante dell’infame colpa della pedofilia del prelato in un periodo precedente. Alla fine, infatti, è lo stesso segretario/amante a condannare senza appello quella violenza con le dure parole del Vangelo: «chiunque scandalizza uno di questi piccoli, è meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare».