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Quest’anno abbiamo intrapreso una modalità abbastanza insolita, cioè quella di incominciare dalla fine. Non solo dalla descrizione degli applausi conclusivi di uno spettacolo, ma anche dal risultato finale rielaborato anche attraverso le notizie raccolte durante il corso delle repliche e, naturalmente, attraverso la visione dello spettacolo stesso.

Per quanto riguarda la prima mondiale de LO SPOPOLATORE, testo di Beckett e regia di Peter Brook, in scena dal 6 al 9 giugno al Teatro Sannazaro di Napoli,  abbiamo anche conoscenza (e visione!) di uno stralcio di prova. Lo spettacolo “flop” di questo Festival, così definito ormai da tutti, spettatori e critici, è anche quello più pubblicizzato, visto il rumore suscitato nella città partenopea. Il Corriere del Mezzogiorno pubblica una dichiarazione ufficiale di Luca De Fusco, direttore del Festival, che annuncia la riduzione del compenso economico pattuito per l’allestimento de Lo Spopolatore in anteprima mondiale al NTFI 2013. Le prove a porte chiuse, il cambio improvviso di lingua dal tedesco al francese, le date delle prove aperte saltate, il pubblico indignato, la critica impazzita: era impossibile non vedere questo spettacolo e soprattutto era opportuno vederlo proprio l’ultimo giorno di replica. A due giorni dal debutto,  i trenta minuti di prove che ci sono stati concessi, all’interno del progetto “Critico per un giorno”, hanno subito mostrato le problematiche. Gli spostamenti di orari e di date  ci hanno fatto storcere il naso, ritenendo, poi, inevitabile questa scelta non appena comunicato ufficialmente il cambio di lingua. L’attrice Miriam Goldschmidt, donna minuta, dalla pelle ambrata e dagli occhi grandi, mobili, a tratti inquietanti, compare sulla scena. In prima fila la collaboratrice artistica Marie-Hélène Estienne. La traduttrice annuncia la “lettura” di una parte di testo. E così è stato. La lettura del testo non è il problema fondamentale dell’intero allestimento. Rendiamocene conto. E non lo è neanche il copione tenuto in mano dall’attrice. Ciò che appare evidente durante la prova è che l’attrice non abbia assolutamente consapevolezza degli spazi e dei movimenti, a soli due giorni dal debutto mondiale. È dunque comprensibile ( forse..) la mancanza di memoria, viste le problematiche di cambio di lingua, ma ci si chiede: se il progetto dell’allestimento è attivo da settimane come fa un’attrice a non rendersi conto del materiale scenico e degli spazi che la circondano? Oltre a sorprendere la difficoltà di movimento della donna, infastidisce la comicità forzata che la Goldschmidt  mostra nel dialogo finale con il pubblico che assiste alla prova. La traduttrice chiede se qualcuno vuole porre una domanda: un  grande attore presente alle prove pone l’ inevitabile quesito sulla memoria. Non avremo risposta chiara. Ma torniamo allo spettacolo vero e proprio. In attesa dell’inizio della messinscena, il regista e la collaboratrice appaiono in platea, esattamente nelle poltrone davanti a quella della sottoscritta: in mano fogli di giornali, ritagli di recensioni, commentano la lettura di un articolo il cui titolo riporta la delusione del pubblico napoletano. Per l’ultima replica si sceglie di inserire una piccola introduzione. Attrice e rumorista avvertono il pubblico del “misunderstanding” : questa è una lettura di Beckett!  E se lo ricorderà anche la povera spettatrice colta da tosse convulsiva, sgridata pubblicamente dall’attrice che chiede perché mai tossisca continuamente durante una lettura “sacra” di Beckett! Ironia a parte, tralasciando i telefonini squillanti, le porte dei palchetti cigolanti, il pubblico insofferente, prevenuto e indisciplinato già all’inizio dello spettacolo, entriamo dentro. Il testo beckettiano immagina un luogo a forma di cilindro, le cui pareti sono perforate da numerose nicchie raggiungibili attraverso scale. Sulla scena sono poste delle scale malconce e sconnesse, un suolo di pece nera accoglie un tavolino di legno. L’essenzialità voluta da Brook si evidenzia sin dalla prima osservazione del palcoscenico. L’idea dell’autore è quella di raccogliere un’umanità smarrita all’interno di questo luogo dantesco: i corpi e le anime vagano, si scontrano, cercando di salire sulle scale, ma mai due per volta. Chi resta bloccato a metà, chi scende e rimane al suolo, chi cerca l’uscita, chi trova un piolo spezzato e si distoglie dall’ascesa, utilizzando il pezzo di legno come arma: l’immagine brulicante di corpi ed esseri che diventano metafora della vita e della società contemporanea.  Un alveare  in cui il tempo scorre, inesorabile, senza sosta, senza soluzione. La profondità e bellezza del testo beckettiano vengono riprodotti in scena nelle modalità già accennate nella descrizione della prova: mentre l’attrice si arrampica con difficoltà sulla scala, continua a tenere in mano il copione e a leggerlo. I palchetti del teatro diventano le nicchie descritte da Beckett e la regia prevede che le luci in sala si accendano quando l’attrice pronuncia la parola “niches”: espediente  poco efficace. Nonostante i commenti della critica e del pubblico che hanno assistito alla precedenti repliche, appare in scena la volontà di ampliare la gamma di movimenti e di espressioni, come se si volesse compiacere il pubblico, proprio l’ultimo giorno. La sensazione è che la donna sia capitata nel cilindro beckettiano per caso, che abbia trovato un cartiglio con un trattato, una descrizione di questo mondo sotterraneo. Ed è per questo motivo che per brevi attimi il pubblico si zittisce: in alcuni momenti l’attrice riesce ad agganciare l’attenzione degli spettatori. La volontà del pubblico è comprendere, tuffarsi nel testo, immaginare. Gli applausi arrivano, inaspettati. In qualche modo e  in qualche breve momento, la Goldschmidt ha attratto lo spettatore. Nonostante i suoi improvvisi urli, i suoi movimenti irrequieti e imprecisi, nonostante la collaboratrice artistica osservi inquieta le reazioni del pubblico, nonostante Peter Brook rimanga impassibile in platea, mentre la maggior parte del pubblico non lo riconosca, nonostante tutto…

 

Foto Salvatore Pastore