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Al Festival delle Colline Torinesi 2013, il 15 e 16 giugno, “Fanny & Alexander” presentano queste due tappe del loro progetto drammaturgico teso ad indagare sul discorso nelle modalità che questo ha assunto e assume nel suo articolarsi storico ed anche estetico rispetto alle forme dell'esistere, un progetto dunque che dalla sintassi scivola inevitabilmente verso il senso ultimo della parola come segno distintivo dell'essere umani.
Due momenti diversi di un'unica riflessione che a Torino si è aperta affrontando, con “Discorso Giallo”, il tema della formazione pedagogica e del discorso che l'accompagna. In scena Chiara Lagani, bravissima, che con Luigi De Angelis è l'ideatrice del progetto ed è anche la drammaturga dei due momenti. La drammaturgia gioca ed indaga intorno alla trasformazione e semplificazione del discorso educativo nel suo essere incorporato, e dominato, all'interno della sintassi televisiva, ripercorsa a partire da “Non è mai troppo tardi” fino ad “Amici”. La Lagani intuisce efficacemente come tale trasformazione non sia neutrale ma modifichi profondamente il senso e la direzione del discorso pedagogico verso un progressivo abbandono del legame, di sentimento e di ragione, che può dargli sostanza umana. La pedagogia, e la citazione lontana nel tempo e nello spazio drammaturgico di Maria Montessori ne è evidenza, vira verso la coercizione e il divieto, cioè verso l'abbandono e l'oblio di ciò che non è 'semplificabile' e 'controllabile', il sentimento cioè dell'esistere che è la base dell'essenza e della libertà umana.
Con “Discorso Grigio” si affronta il discorso politico, che in senso ideale precede ed ingloba ogni altro discorso in quanto sintassi principe della 'comunità'. Ne è protagonista stavolta un eccellente Marco Cavalcoli impegnato in un ipotetico, ma molto concreto e radicato, discorso presidenziale alla nazione in cui, attraverso efficaci inserti di storiche e meno storiche affermazioni di ben conosciuti uomini politici, la 'nazione', come comunità di liberi e consapevoli, praticamente scompare, avvilita, come nella sua pedagogia, dalle semplificazioni di un discorso modernizzante e televisivo che taglia ed abbandona.
Vi è dunque, a mio avviso, un consapevole segno comune nelle due distinte drammaturgie, che è quello della scoperta che la sintassi e la parola stessa della nostra contemporaneità, svilita e semplificata, esausta nel senso stesso della intuizione sanguinetiana, tralascia, anzi quasi volontariamente abbandona, parte della nostra umanità, quella parte che costituisce il senso stesso del nostro esistere in una libertà che del legame con l'altro fa un trampolino di conoscenza.
Tagliata fuori dal discorso comunitario, questa parte di noi non si elabora in parola e quindi non si riconosce e non può essere riconosciuta, ma non scompare. Rimane nel senso di angoscia che proviamo di fronte al vuoto che ci viene proposto e imposto, rimane nel rumore di fondo che circonda la scena vuota, nella bellissima musica che accompagna entrambe le drammaturgie. Rimane nascosta da una maschera che, priva di gioia, in scena sembra più uno strumento di oppressione fino alla tortura fisica, piuttosto che di carnevale liberatorio.
Bravissimi sono Chiara Lagani e Marco Cavalcoli nell'esprimere tale angosciosa cesura nel senso di distanza e talora di repulsione del loro corpo recitante rispetto alle parole di cui si fa con sofferenza portatore, negli scarti improvvisi, nei tick ripetuti, nel loro forzare la voce su tonalità che riproducono l'inganno della parola ma insieme  lo svelano.
È uno sforzo mimico che si palesa anche in fatica fisica e che costituisce una prova di grande maturità attoriale.
E' una parola, dunque, e un discorso che strutturalmente non è più in grado di disvelare, ma solo di censurare e di tagliare via parti della nostra essenza e della nostra coscienza esistenziale. Il teatro appare così come l'ultimo luogo, per Fanny & Alexander, in cui tentare una consapevolezza condivisa di questo sofferto slittamento significativo, che da segnico si fa concretamente e angosciosamente esistenziale.
Posto che è necessario resistere e forse ribellarsi, saremo in grado di farlo? È una domanda che attraversa le due drammaturgie, e probabilmente l'intero progetto nel denunziare il pericolo di un mondo in cui tutto si fa esterno a noi e quindi ci abbandona all'angoscia.
È una contemporaneità in cui la forza di una tale privazione appare invincibile, ma a cui vale la pena di opporre, di nuovo, un pensiero antico ed efficace: <<Se mai accadesse, per voler compiacere qualcuno, di volgerti alle cose esterne, avresti perduto, siine certo, il tuo programma morale. Dunque, in ogni circostanza, accontentati di essere filosofo, e se vuoi anche apparire filosofo, mostrati tale a te stesso, e ne sarai in grado.>> (Epitetto, Manuale).
Detto della capacità di approfondimento dei due drammaturghi, e della sapienza attoriale, nella gestione del corpo e dei movimenti scenici, di Chiara Lagani e Marco Cavalcoli, vanno citate l'abile regia di Luigi de Angelis, e la bravura di tutti coloro, tecnici e assistenti, che partecipano al progetto, con una particolare sottolineatura per il progetto sonoro, della cui indubbia efficacia drammaturgica abbiamo detto, di The Mad Stork.

foto Enrico Fedrigoli