4 novembre 2008, ore 11 di sera: inizio a scrivere questa nota con un occhio alle linee progettuali 2008/9 del Teatro di Roma e l’altro al televisore acceso sulle presidenziali USA. Me ne viene la conferma che da diverso tempo e da più parti nel mondo, la cultura sia in fase di ripensamento, mentre, all’interno di questa temperie, il Teatro segnala vistosamente la sua inquietudine. Non solo in chiave di malcontento politico.

Se a proliferare sono i readings che immediatamente si fanno denuncia di una qualche anomala emergenza del sociale, è anche molto forte la domanda di serate che interconnettano saperi e con quelli il pensiero di scienziati, filosofi e artisti. Di qui, la ricorrente presenza, dal vivo, di eminenti testimoni della cultura contemporanea e di grandi attori, che si fanno interpreti dei loro testi o di quelli, comunque, chiamati in causa. E se sono la norma le manifestazioni che collegano spazi diversi e lontani, conferendo uguale dignità ad ambienti differentemente deputati e città oppostamente connotate, è vero che cominciano ad apparire rassegne teatrali che si faranno cinematografiche o di letteratura e viceversa, aprendo la strada ad uno slittamento di generi e linguaggi che sta già innescando un cambiamento.….

In simile contesto un teatro pubblico che “sia fonte di dinamismo e solidarietà rispetto al proprio territorio” e che pensi a “cucire relazioni e a valorizzare le diversità e i giovani” sembra un sogno americano… Invece no, sto semplicemente scorrendo le nuove linee programmatiche del Teatro di Roma: quando decido di non rinunciare al sonno, mi fermo su una frase stampata in margine di terza pagina e adesso anche nella mia testa: “Bisogna inserire un pivello ogni anno tra i giocatori di prima fila”: vecchio detto del baseball. Alle 5 meno 5 del mattino, vagolando al buio con un bicchiere in mano perché ho sete, mi sveglio del tutto al pensiero che, intanto, le sorti di Barak Hussein Obama si staranno compiendo.

Acciuffo in fretta un plaid e mi sdraio sul divano mentre lo schermo della tv, docile all’impulso del telecomando e al mio strano tempismo, si apre sul Grant Park di Chicago. “Abbiamo finalmente la certezza che che Barak Obama è stato eletto a larga maggioranza 44° Presidente degli Stati Uniti d’America”. Il rituale che segue questo annuncio è di sconcertante semplicità e privo di retorica: in tempi assolutamente reali e senza frenesia alcuna, un pastore di colore pronuncia un sobrio discorso e lascia il palco pacatamente. Segue una pausa di breve durata, quando una giovane donna nera, dall’aria solida e intensa, si fa avanti per intonare, senza alcun accompagnamento musicale, l’inno nazionale americano. E’ adesso, dopo un’altra contenuta pausa, che il giovane Presidente prende a incedere sul palco con la sua andatura morbida e pensosa: poi si ferma, indietreggia alcuni passi e si volta per tendere la mano alla figlioletta Sasha, di cui vediamo luccicare gioisamente il sorriso, ancor prima che possa liberarsi dal groviglio di tendaggi che l’avviluppa, dietro le quinte dell’impalcatura elettorale. Il sorriso luminoso della piccola si scopre allora essere tutt’uno con quello della sorellina Malia, che la tiene per mano e appare a sua volta con uno sguardo indicibile, perso tra felicità e sgomento, a contatto stretto di braccia con la splendida, teneramente grintosa, Michelle.

Prima ancora del discorso che Obama sta per fare e che il mondo chioserà nel tempo a venire, questo inizio, questo saluto, “è” già la speranza. Caldo e forte, arriva poi un “Hellò, Chicago” che pare l’omaggio di un giovanissimo campione di baseball, ancora pivello in nazionale, al suo recente pubblico. Caldo e forte. Per cominciare. E poi si fa strada, tra le parole dell’appello, grande e semplicissimo, alla sua America, un Obama che è un condensato di diritto costituzionale…

“Occorre ripensare le categorie sociologiche, ispirandosi alla pratica e ai costumi piuttosto che ai concetti astratti…” : di nuovo non è il sogno americano, ma qualcosa, evidentemente, sembra muoversi proprio da quelle parti, anche nell’orientamento del Teatro di Roma.. E c’è, per l’appunto, un’iniziativa nata con questa rinnovata progettualità che appare specialissima per aggirare le pastoie dell’immobilità del nostro Paese. Almeno così lasciano pensare le sue premesse.

Si tratta de “La sponda dell’utopia. Le radici della contemporaneità”: un’idea che parte dalla traduzione dell’omonimo testo di Tom Stoppard per approdarne alla messa in scena, attraverso un progetto triennale che coinvolge numerose strutture e coniuga il teatro della rappresentazione con il teatro della discussione. Premesso che si tratta di un’ opera estremamente complessa e di grande valore e successo nei paesi anglofoni, questa singolare avventura è stata annunciata con due conferenze al Teatro Argentina, aventi come tema la prima “Testo e contesto, per incontrare il tempo presente e i suoi autori”, la seconda “L’utopia e le sue derive”.

Chi scrive ha potuto assistere alla seconda riunione , durante la quale si sono tenute conversazioni di appassionata competenza grazie alla presenza gentile e generosa di Giuliano Amato, Antonio Maccanico, Angelo Mellone, Mario Pirani e Piero Maccarinielli, intorno a letture da Alexander Herzen, Michail Bakunin, Isaiah Berlin, Tom Stoppard, tenute da interpreti stupefacenti. Volendo aggiungere che il progetto appartiene all’Associazione Artisti Riuniti e vede la collaborazione di: Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, Centro Sperimentale di cinematografia, Ente Teatrale Italiano, Teatro di Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Università degli Studi di Roma “la Sapienza”, Reset, Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma, si intende insinuare che la cosa sia oltremodo interessante. E considerato che, per una intera settimana il regista del progetto Piero Maccarinielli ha condotto una selezione fra gli attori diplomati tra il 2001 e il 2008 presso l’Accademia Nazionale d’ Arte Drammatica e il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, radunando un buon numero di “pivelli” da inserire in ruoli di primo piano, ritorniamo più felicemente al titolo, alla speranza e al desiderio di cambiamento.