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Giunge alle settimane finali la lunga estate italiana dei festival di teatro e d’arti performative disseminati per la Penisola. In mezzo all’infinito range di scelte sparse in ogni dove, quest’anno ho volentieri optato – e con interesse – per una manifestazione non troppo lontana dalla mia abitazione milanese e di cui può risultare stimolante proporre un focus attraverso una ricognizione di tredici spettacoli (tra i numerosi in cartellone) che ho avuto modo di vedere e vivere nel suo originale contesto espanso.
Sto parlando del Giardino delle Esperidi Festival che, proprio all’aprirsi della stagione estiva, da quasi un decennio anima un dedalo di località e comuni delle prealpi lecchesi secondo principi di vivace interconnessione. Presupposti e modalità, articolati in proposte multidisciplinari dal vivo collocate in suggestivi luoghi, borghi e situazioni, di cui rivelarne ogni volta la bellezza e l’interrelazione annosa col contesto naturale circostante o adiacente; ma, soprattutto, la vocazione alla condivisione comunitaria di contenuti emotivi che favoriscano l’incontro tra persone di differente estrazione e provenienza, grazie alla peculiare immediatezza comunicativa delle arti teatrali, coreografiche, musicali e poetiche. Così ville e corti, piazze e spiazzi storici, bei cortili e parchi, ariosi boschi e paesaggi arrampicati al cielo, sono divenuti ricettacolo e sfondo per molteplici spettatori di tutte le età e appartenenze: capaci di riempire platee e aree disparate (fervidi di attenzione e coinvolgimento) fino a tarda ora, al di là dell’apparente lontananza e impervietà di certe località o location, senza temere le brezze fredde recate dalle piogge post-primaverili che carezzavano la sera. Un lavoro organizzativo e di concept, dunque, svolto con capacità attrattiva, sensibilità e bravura artigianale dal direttore artistico Michele Losi assieme al suo staff di ScarlattineTeatro, compagnia con sede nel ristrutturato Palazzo Gambassi di Campsirago, inerpicata e ammaliante frazione sita a Colle Brianza. Un piccolo punto, sperduto fra i monti della provincia di Lecco, da cui però si guarda in grande, mirando oltre i propri confini territoriali e nondimeno nazionali.
E a far convergere una tale diversità di direttrici geografiche, ha contribuito senza meno il tramite della drammaturgia e della sua declinazione svariante fra messinscena e recita di testi, composizioni nella dimensione coreografica, visivo-musicale e nello spazio comunitario e paesaggistico. Intrecci, convergenze, pluralità di modi e forme, da cui si sono sprigionati temi virati attorno al nucleo dilavato dell’attuale smarrimento diffuso: fra itinerari stranieri a cui rivolgersi e derive tutte italiane in cui perdersi, ma col fine indomito di riuscire prima o poi a ritrovarsi. Rilanciando sfide e serbando il lume di una Fede.

– ITINERARI STRANIERI –

Dentro e fuori una tenda arancione centrata in fondo al palco, la solista di THE BEAST - A BOOK IN AN ORANGE TENT – Sanna Kekäläinen – (Foto di Ella Tommila) distilla al microfono le sue rarefatte parole sull’Esistere e sull’Essere, mostrandone per mobili immagini corporee la differenza sostanziale che solo il tramite di un’azione immaginativa può connettere in una sfera reintegrata, al di là di ogni inerte isolamento categorico e segmentato. Così, lasciato l’interno della tenda e toltasi gradualmente ogni indumento, procede con sguardo sperso – come rivolto a un altrove – a dare movimenti e stilemi d’animali diversi al suo bianco corpo nordico che percorre e sonda lo spazio dintorno. La scena accoglie ampie assolvenze luministiche, mentre la nuda (o altrimenti discinta) Kekäläinen si sfrega, si tocca, traina e tira l’invisibile con le mani, rannicchiando e dilatando spesso gambe e braccia a guisa di ragno o “Uccello della Bellezza”, come a volere entrare o profondarsi “Inside her airplain of Fantasy”. Laddove, cioè, può attingere a forme e modalità d’espressione liberate al metamorfismo arricchente della vita. Per questo la mutevolezza di aspetti, pose, moti e movenze del regno animale dà linfa alla sua coreografia in cui, perdipiù, lei inarticola suoni e spezzetta movenze, toccando parecchio terra e liquefacendosi a livello gestuale, pur dopo avere trovato un momentaneo equilibrio nella compostezza di esercizi ballettistici che affondano nella sua memoria di donna artista. La ricerca, allora, di un ravvivante “Tremble of Joy” si chiude con l’ascolto di battenti ritmi lontani di gioiose musiche d’Africa o da Mille e una notte che invero aprono su danze altre da esplorare e vivere: ondeggiando sul vento sognante di una ricomposta realtà dove l’Essere e l’Esistere volteggino indivisi, senza più nascondersi vicendevolmente e consuonando insieme.
Sul medesimo palco di Campsirago, attorniato dal luccichio notturno dei monti briantei, è poi la compagnia ceca VerTeDance a inoltrarsi nell’identità aerea del “Desiderio vago” (direbbe Lee Masters) con la danza di WHAT IS THE WEIGHT OF YOUR DESIRE? Spettacolo di quattro splendide e attraenti femmine – ironiche e aggraziate ma pure dure, alla bisogna – accompagnate dalle canzoni e musiche pop rock eseguite dal vivo, sul fondoscena, dal quintetto maschile degli ZRNI. Si mostrano frontali, le intepreti, oppure si rispecchiano tra loro a gruppi di due, tre, incrociando ravvicinate specularità di arti in movimento e dando luogo ad armonici triangoli da cui irradiare ammiccanti effusioni ferine (che accattivano occhi e sensi) o rapide composizioni da fulgide sirene a terra. Nessun ordinato irenismo, tuttavia, ha portato a tale gioco di corrispondenze: piuttosto un intarsiarsi d’antagonismi vari fatto di colpi e respingimenti, prese in giro e piccole crudeltà, gesti convulsi ed esclusioni, salti con crolli e sbattimenti di corpi sul suolo. Vestite di leggeri capi sovrapposti e dissintoni, mentre riflessi mercuriali riverberano sulla band di maschi che – dal fondo – le osservano, ognuna delle ragazze vive a turno il proprio angolo d’indotta solitudine e alterità, in cui però potere scoprire la propria particolare unicità. Ed è lì d’altronde, in quella zona di ritrovata singolarità personale vissuta con graffiata consapevolezza, che il Desiderio autentico può sorgere limpido e non cadere supina preda degli sguardi e atteggiamenti altrui che – forgiando visuali, schemi e orizzonti d’attese entro cui agire e abbozzare pensieri – eccede nel dettare imposizioni, astratti giudizi e limiti condizionanti.
A infrangere limiti di Tempo, Spazio e Nostalgia, s’adopera diversamente l’eclettico artista praghese Petr Nikl col suo fantasmagorico lavoro I AM YOUR BUNNY (Foto Archa Theatre), rappresentato nell’ampia corte interna dell’incantevole Casa Gola a Olgiate Molgora. In calzoncini corti e maglietta, apparendo come un eterno fanciullo smanioso ancora di giochi e stupori, Nikl risale il flusso dell’esistenza che gli ha sottratto bellezze e dolci condivisioni con l’amatissima madre, prematuramente scomparsa durante la sua infanzia. Egli scorrazza dentro e fuori dalle porte che la vecchia Casa gli offre, si mostra da alte finestre e sbuca all’improvviso a lato della scena oppure da dietro le gradinate della platea, si nasconde a cercare la presenza materna dentro un trascolorato pianoforte. Similmente fanno i suoi congegni che solcano l’aria sovrastante e spariscono via: cuscini aerostatici che registrano voci e ne rimandano l’eco, pesci giganti simili a spermatozoi alla conquista del cielo, altri zeppelin in moto e tutti di trasparente plastica su cui palpitano i bagliori circostanti, col pubblico incantato a sospingerli un poco quando passano vicini. Nel mentre, il performer dipana, grida e suona i suoi canti alla cara figura estinta, nonché a giorni d’andata spensieratezza, provando alfine a catturare malferme proiezioni video con un apposito retino, lanciando sassi da fuori verso la scena, dove semoventi macchinine recano in giro cappelli che metonimizzano l’arrovellarsi a circuito chiuso dei pensieri su una dominante idea. Accompagna il protagonista un piccolo ensemble musicale live che, dalla sinistra del fuoriribalta, gli fa da controcanto e da evocativo rimando che affonda e taglia nelle viscere della reviviscenza. Il ricordo è un muro da abbattere, allora, come suggerisce il conglomerato di cubi iniziale che l’artista distrugge presto affinché si sparga intorno. Composita ostruzione eretta a rintuzzare e a impedire l’effondersi di una propria espressione e forma alternativa di vita alla luce cangiante del figlio del Sé. Del resto – e in fin dei conti – si è figli soprattutto di se stessi, orfani congeniti che hanno da crearsi i propri percorsi e guide spazianti lungo le sfaccettate direzioni del Divenire in cui crescere.
Meno transvolante, e condensato invece dentro un rotolo opaco di cartone, è la “suite senza parole” TOPORLAND inscenata dai polacchi dell’Unia Teatr Niemozliwy. Fra le luci basse dell’allestimento nel cortile di Casa Gola, un paio di manovratori nerovestiti entrano e si nascondono – trascinando stancamente i piedi – dietro un alto cilindro cartaceo per svolgerne e riavvolgerne una serie di raffigurazioni disegnate sulla sua superficie. Sulla destra accanto, un contrabbassista dà il via e detta il ritmo a tale azione bidirezionale grazie all’incedere calzante delle sue note; le quali punteggiano il trascorrere dei disegni inerenti a scenari urbani, domestici, perfino marini e aerei, attraversati da silouhette di personaggi intenti ad incontrarsi presso case misteriose dove scatenare pulsioni beffarde di eros e morte. Ovvero, due facce di un’omologa tensione ad affermarsi con radicalità e strenua decisione sulle distese mobili, sfuggenti e frammentate della realtà che si sperimenta quotidianamente, per provare quindi a viverla nella sua invisibile profondità e fino ai suoi limiti estremi così da vagliarne lo spessore, l’entità e la tenuta, a fronte della ridda di impulsi nascosti, incoffessati e anche foschi che muovono quello strano essere sociale chiamato Uomo. Per cui, sul cartone, si rivelano nondimeno sezioni e ritagli pronti ad aprirsi, a slittare, spostarsi e chiudersi, assieme a inserti di scuro materiale plastico. Talvolta s’ode il risuonar di passi delle accennate ombre umane che camminano, finché il vagabondo un po’ alla Charlot – che apre, attraversa e chiude l’opera – si stacca dal supporto perdendosi nella buia dissolvenza finale. Il contrabbassista, viceversa, resta illuminato mentre va a concludere tale psycho trip visivo poco penetrante, tuttavia, e coinvolgente: poiché contenuto, trattenuto in una frontalità di proiezioni rapprese su carta, le quali distanziano e astraggono in luogo di accendere una condivisione di superiore vicinanza e spessore (emotivo e intellettuale) della sua sotterranea materia pulsante e mordente. Forse l’ambientazione all’aperto non ha giovato in tal senso, per un lavoro dai tratti underground idonei a incidere maggiormente nella tagliente prossimità di spazi più concentrati.
Dal canto loro, i finlandesi di Other Spaces vertono per l’ambientazione open air riguardo l’esposizione pubblica del lavoro OLIVES AND STONES. E la fanno in quel di Consonno: un incredibile borgo cinto da verdi alture boschive dove permangono i resti disabitati, consunti, risalenti agli anni ’60, di una clamorosa ed enorme costruzione per compartimenti, spiazzi e terrazze, altresì turrita e dai motivi orientaleggianti, la quale avrebbe dovuto fungere da epicentro di un progetto volto a trasformare la frazione in un utopistico Paese dei Balocchi di cui, infatti, restano disseminate memorie quasi irreali qua e là. Pertanto, ecco gli artisti stranieri condurre un workshop di due giorni – con partecipanti radunati in loco – su emblematiche entità del cosmo naturale e su come il soggetto può rapportarsi a quest’ultimo con attenzione sollecita introiettandone le forme, le intrinseche caratteristiche e le osservabili estrinsecazioni vitali, al fine di una comprensione delle interrelazioni stanti fra gli esseri in un Reale dove tutto è connesso con tutto, nessuno è isolato, e ogni singola azione ha quindi delle conseguenze trasformative su chi è intorno e sul mondo circostante. Pensieri correlati per niente scontati, visto l’odierno imperversare inesausto di egoici utilitarismi ed edonismi telecomandati, di laceranti forbici sociali in espansione e divisive di un intero sistema sociale in rovina. Spaccature scoscese d’incongruenza che, infatti, l’ergersi solitario di un posto pazzesco qual è Consonno sembra rinfrangere attorno, allorché il gruppo sviluppa un plastico e intrecciato diorama di esercizi psicodinamici in cui i differenti corpi e sembianze assumono ghigni, contorcimenti e gridi di vermi, pipistrelli e fiere molteplici liberate; ma anche di selve, legni arborei, minerali ed elementi della natura, con gli spettatori a seguire gli interpreti che si disperdono in giro come spore o semi protesi a infondere germi di reinventabile esistenza alla vita dintorno imbalsamata dal tempo. Sicché si guarda a tali germogli di continue e diverse mutazioni, sorte da un inabissarsi nei flussi di dentro, con spontanea empatia e trasporto immediato, scevri da giudizi su estetica e implicazioni artistiche. Poiché ognuno di noi è cangiante energia rinnovabile nel grande caleidoscopio del Creato in cui siamo immersi. Irrigidire ciò in costruzioni magari rassicuranti, ma artificiose e rigide, significa comprimerne oltremodo il dinamico potenziale rigenerante sino a un’inevitabile implosione su di sé. La corporea figurazione conclusiva di un babelico e composito grattacielo che crolla inesorabile, perciò, assume più le tinte di un eloquente ammonimento che gli aspetti tranquillizzanti di uno scioglimento finale. “Non lasciatevi sedurre” commenterebbe uno dedito alla lucidità della tempra di Bertolt Brecht. E forse avrebbe ragione.

[CONTINUA]

THE BEAST - A BOOK IN AN ORANGE TENT
di e con Sanna Kekäläinen.
Luci: Heikki Paasonen.
Produzione: Kekäläinen&Company/Kiasma Theatre.
Prima nazionale: Colle Brianza (LC), frazione di Campsirago, Palazzo Gambassi, 21-22 giugno 2013.

WHAT IS THE WEIGHT OF YOUR DESIRE?
Ideazione, coreografia, interpreti: Veronika Kotlíková, Tereza Ondrová, Helena Arenbergerová, Lucia Kašiarová.
Collaborazione drammaturgica: Lukáš Jiřička.
Collaborazione coreografica: Peter Jaško.
Spazio e costumi: Máša Černíková.
Luci: Pavel Kotlík.
Musiche ed esecuzione dal vivo: ZRNÍ (Jan Unger, Jan Juklík, Jan Fišer, Jan Caithaml, Ondřej Slavík).
Produzione: VerTeDance.
Prima nazionale: Colle Brianza (LC), frazione di Campsirago, Palazzo Gambassi, 24 giugno 2013.

I AM YOUR BUNNY
di e con Peter Nikl.
Luci: Adam Uzi.
Musiche: Miroslav Černý.
Suoni: David Vrbik.
Macchinista: Ondřej Eremiáš.
Produzione: Archa Theatre | Petr Nikl.
Prima nazionale: Olgiate Molgora (LC), Casa Gola, 26-27 giugno 2103.

TOPORLAND
Drammaturgia e scene: Wojciech Olejnik.
Musiche eseguite dal vivo: Bogdan Edmund Szczepanski.
Collaborazione scenografica: Violetta Halenka e Catherine Rogowiec.
Produzione: Unia Teatr Niemozliwy.
Prima nazionale: Olgiate Molgora (LC), Casa Gola, 28 giugno 2103.

OLIVES AND STONES
Ideazione, realizzazione e produzione: Other Spaces (Esa Kirkkopelto, Lauri Kontula, Jaakko Ruuska, Minja Mertanen).
Interpreti: Other Spaces e i partecipanti al workshop Secret Retraining Camp. 
Prima nazionale: Olginate (LC), frazione di Consonno, 29 giugno 2013.

Links:
www.scarlattineteatro.it
www.brianzainscena.it
www.kekalainencompany.net
www.kiasma.fi
www.vertedance.org
www.petrnikl.cz
www.archatheatre.cz/en
www.uniateatrniemozliwy.art.pl
www.toisissatiloissa.net/mainpage.html