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Settembre si conclude a Taranto. Ospiti del FESTIVAL STARTUP, dal 26 al 28 settembre, la città pugliese ci regala tre giorni di caldo intenso e di eventi teatrali importanti. Il Festival, alla sua seconda edizione,  è  sottotitolato “generazioni fra le macerie”: non è difficile capirne il significato profondo. Se dalle macerie rinasce il teatro TATÀ,

quartier generale del Festival StartUp, il teatro italiano contemporaneo prova a sbirciare tra la polvere. Sperando che non sia quella rossa emanata dall’ILVA. Il teatro Tatà ha sede nel quartiere popolare, operaio e periferico, chiamato “Tamburi”. Le case popolari della periferia ne fanno da contorno ma ciò che ci sorprende è il silenzio ordinato degli edifici quadrati che in altre città avrebbero avuto facciata meno dignitosa. Nonostante le minacciose ciminiere e il cielo rossastro, quest’ultimo inquietante e affascinante allo stesso tempo, scopriamo il tesoro nascosto della Puglia teatrale. Tatà è un acronimo: Taranto auditorium Tamburi. E in effetti l’auditorium è immenso, affiancato da una più piccola sala off, da un salotto per incontri e conferenze, da un cortile e da innumerevoli altri spazi. Quelli che negli anni passati erano lasciati al degrado. La compagnia CREST rimette in piedi tutto questo. Il duro lavoro di Gaetano Colella e Clara Cottino, rispettivamente direttore artistico e direttore organizzativo, ( e di tantissime altre persone), ci permette di assistere ad un Festival che contiene in sé non solo il prodotto teatrale e artistico, ma  soprattutto dà vita ad un luogo di incontro e confronto tra gli esponenti del teatro contemporaneo, dai critici, agli artisti, agli studiosi, ai direttori dei teatri, alle compagnie, ai rappresentanti delle RESIDENZE TEATRALI.  Questo il tema fondamentale di uno dei “tavoli di lavoro”,  all’interno del ricco programma.  Le Residenze Teatrali sono un fenomeno forse ancora poco conosciuto, nato dalla crisi culturale ed economica in cui versa il teatro italiano. Mentre i grandi teatri e quelli più fortunati ricevono fondi e aiuti, la maggior parte delle compagnie italiane non si arrende. Mentre in Puglia la rinascita parte dalla volontà politica, da bandi e da progetti emanati dall’amministrazione regionale, il concetto di “residenza teatrale” attecchisce e si sviluppa anche in altre regioni italiane per pura volontà  degli artisti e delle compagnie. Ecco perché parliamo  anche di “resistenze”. Grandissimi sacrifici ma soprattutto interazione e integrazione profonda con il territorio.  La compagnia CREST è inserita all’interno della RETE DEI TEATRI ABITATI, UNA.NET, una rete di sei residenze teatrali che attraversano l’Italia da Nord a Sud. Sei compagnie a cui le residenze fanno capo: CREST ( Taranto), TEATRO LE FORCHE (Massafra), ARMAMAXA TEATRO ( Ceglie Messapica), ResEXSTENSA ( Gioia Del Colle), LA LUNA NEL LETTO ( Ruvo di Puglia), BOTTEGA DEGLI APOCRIFI TEATRO MUSICA (Manfredonia). Per chi volesse saperne di più è stato pubblicato da Laterza il volume “Teatri abitati. Le residenze teatrali in Puglia (2010-2012)” . Le sei compagnie dovranno cooperare, attraverso attività di formazione e promozione, ricerche culturali e iniziative legate al territorio e alle periferie, all’interno dell’intervallo di tempo 2012/2014. Dal successo di StartUp si svilupperà in Puglia la seconda tappa dei TEATRI DEL TEMPO PRESENTE, progetto del Mibac in collaborazione con dieci regioni, affinché si promuovano le più interessanti formazioni teatrali under 35 in tutta Italia. Ma non solo Residenze Teatrali. Gli altri tavoli di lavoro prevedono l’incontro dei rappresentati di RETE CRITICA: giovani giornalisti e famosi critici che approfondiscono il tema della critica in rete,  sottolineando il futuro del giornalismo on line. Rete Critica raccoglie i più importanti siti italiani di critica e saggistica, di cui fa parte anche DRAMMA. All’interno di questo specifico incontro, intitolato OSSIGENARSI A TARANTO, i direttori, i collaboratori, i  giornalisti e i blogger hanno attivato le procedure di presentazione delle candidature degli spettacoli concorrenti al premio Rete Critica 2013, recensiti sul web durante la scorsa stagione teatrale. Il confronto, le prospettive, le proposte di crescita, le esperienze provenienti da diverse regioni si dirigono verso un unico obiettivo: l’affermazione e la specifica caratterizzazione del lavoro della critica sul web. Si affronta anche il difficile argomento della mancanza di mercato teatrale: all’interno di un altro tavolo di lavoro si approfondiscono motivazioni e si  propongono soluzioni, come l’attivazione dell’anti-trust contro il monopolio sfrenato da parte di alcuni teatri italiani, sia nel percepire fondi, sia nell’organizzare le stagioni e i cartelloni, sia nella promozione di determinati spettacoli a scapito di altri. All’interno del Festival anche un laboratorio condotto dal critico, giornalista e docente Massimo Marino: laboratorio gratuito dal titolo  ALLENARE LO SGUARDO , rivolto al pubblico e conclusosi il 28 settembre con la partecipazione di Gerardo Guccini, docente del DAMS di Bologna. Tutto questo in soli tre giorni,  durante i quali si sono susseguiti ben 13 spettacoli,  allestiti tra le due sale del Teatro Tatà e la chiesa di San Francesco ( ex caserma Rossarol) nella città vecchia di Taranto. StartUp prevede anche una breve visita guidata tra i vicoli e i palazzi della vera città. Il 26 settembre, dopo l’accoglienza e il pranzo, entrambi rigorosamente pugliesi,  si dà il via agli spettacoli. Nel pomeriggio, tra i vicoli della città vecchia, la chiesa di San Francesco ospita VISITAZIONE TARANTO, per la regia e coreografia di Virgilio Sieni. Il concetto di “visitazione” qui vuole sottolineare il “far visita all’altro”. All’interno del suggestivo ambiente quattro donne, nè giovani né attrici, si legano e slegano attraverso movimenti fluidi ed emozionanti. Ogni gesto è perfettamente costruito su ogni singola parte del corpo: non parliamo naturalmente di fisici scolpiti come quelli di atleti o ballerini, ma è proprio questo che sorprende. L’eleganza visiva di questo spettacolo ipnotizza il pubblico. Nessuna incertezza sfiora i movimenti, accompagnati dal suono del violoncello  e dalla voce vellutata di Naomi Berrill.  Il simbolo ricorrente è il fazzoletto bianco. Elemento di unione tra le parti dei diversi corpi, diventa inoltre punto di connessione tra questi e l’ambiente circostante. I movimenti, costruiti “in tensione”, danno l’impressione visiva di un essere “unico” che pulsa di vita, le cui parti si allontanano per poi ritornare all’origine senza mai perdersi. Meno affascinante appare invece ROCK ROSE NOW, concept e coreografia di Daniele Ninarello. Ottimi performers che si esibiscono all’interno della grande sala Tatà. Tema fondamentale è la ricerca del sé: la corsa all’affermazione  porta ad una deformazione grottesca dell’uomo che questo spettacolo rende con l’esasperazione visiva del corpo e del movimento. La ripetizione e la velocità ossessiva dei movimenti ricordano la ricerca futurista sul movimento di inizio ‘900. Ma per il pubblico cogliere i significati intrinseci e la bellezza visiva è molto difficile. Bisogna essere dei cultori del movimento, degli esperti in materia per capire a fondo cosa ci voglia comunicare Ninarello. Più affine ai gusti del pubblico presente appare UN BÈS- ANTONIO LIGABUE. Primo spettacolo del Festival allestito nello spazio OFF Tatà, sembra appassionare il pubblico che preferisce le forme narrative, di più immediata comprensione. Ci avevano parlato bene del lavoro di Mario Perrotta, è così è stato. Ripercorrere la vita del pittore Antonio Ligabue, vissuto tra ‘800 e ‘900, significa avere profonda coscienza e conoscenza della biografia per trasformarla in spettacolo teatrale. Ma Perrotta non si ferma qui. Sarebbe stato banale. L’attore e autore dello spettacolo, in collaborazione con Teatro dell’Argine, riesce a disegnare in scena mentre recita. Non solo dimostra delle qualità pittoriche notevoli, ma materializza visivamente ciò che il pubblico immagina durante la sua narrazione. L’alternanza di dialetti e lingua tedesca dimostra un’impressionante studio sulla lingua, un orecchio formidabile nella riproduzione sonora e un lavoro di fondo enorme. L’eccessiva lunghezza e ripetitività di alcuni punti potrebbero far storcere il naso, ma lo spettacolo non annoia mai. Anzi. Nonostante alcune proiezioni video  potrebbero sembrare anacronistiche ( riuscendo invece ad amalgamarsi con il racconto), la scenografia è costituita fondamentalmente da fogli. Grandi fogli bianchi, diario pittorico di una vita, che l’attore disegna e poi strappa, tiene in mano e poi fa cadere provocando un rumore simile al “frantumarsi” dei ricordi. Scelta che evidenzia ancora il “buon orecchio” dell’autore. La prima giornata del Festival si conclude presso la Sala Tatà: arriva T.E.R.R.Y.  Il gruppo Pathosformel presenta un allestimento che ha dell’incredibile. Nonostante l’esito della performance sia stato negativo  e l’esibizione si sia conclusa prima per il mancato intervento di un attore bambino, l’idea è stupefacente. Sul palcoscenico per la prima volta gli attori vengono sostituiti da macchine.  Si fa riferimento ad un esperimento in cui si cerca di capire se esiste l’arrivismo in natura. Dei carrelli telecomandati contengono delle piante: attraverso il meccanismo della fotosintesi le piante vengono attratte da neon che si accendono alternativamente. Il cuore pulsante luminoso che appare nelle ultime due specie ancora in movimento, ci fa intuire il senso. Ogni carrello si muove imbizzarrito appena si accendono i neon, come macchine da autoscontro che cercano la vita. L’arrivismo in natura esiste ma non è comandato dall’intelletto, bensì dall’istinto di sopravvivenza. Attendiamo di rivedere lo spettacolo in forma completa per coglierne a fondo la poesia e l’angosciosa immagine apocalittica. La seconda giornata del festival si apre ancora presso la chiesa di San Francesco. Ancora danza con QUINTESSENZE. Lavoro definito “studio” ma di grande impatto sul pubblico, presentato dal gruppo ResExtensa. Un’ala della chiesa viene “imballata” con fogli di plastica: materiale arduo per i ballerini. Il mondo esterno è lontano, l’uomo vive in una sua essenza caotica attraverso l’angoscia del quotidiano. I movimenti incastrano i corpi, a coppie, singolarmente, in gruppo. La ricerca del sé viene spinta all’accelerazione massima. Fino allo spasmo finale, in cui le membra si spogliano degli orpelli della quotidianità. L’argilla ricopre, maschera le membra, è simbolo di creazione e rinascita, ma alla fine viene lanciata sulla parete plastificata, in fondo. Con l’argilla si compone un murales, una scritta: alive. Sapiente l’uso delle luci e coinvolgente la scelta delle musiche. Il pubblico apprezza. Nessuno distoglie lo sguardo. Arte visiva affascinante e ricca. Si continua al quartiere Tamburi, di nuovo nella sala Tatà con CROCE E FISARMONICA, di Armamaxa Teatro-Diaghilev, racconto teatrale di Carlo Bruni ed Enrico Messina dedicato a Don Tonino Bello. Lo spettacolo, reduce dal premio Teatri del Sacro 2013, racconta la storia  di don Tonino, l’uomo che ammalatosi di cancro decide nel ’92 di partire per Sarajevo cercando di invocare la pace attraverso la parola. Impresa ardua per un piccolo uomo di fede vissuto in Puglia, la cui vita viene raccontata attraverso le parole di Enrico Messina e le note  della fisarmonica di Mirko Lodedo. Il connubio tra racconto, quasi agiografico a tratti ( e questo lo rende a volte noioso), e musica, ha un risultato visivo che apre la mente al ricordo delle pellicole di Tornatore o dei racconti dei cantastorie di piazza. Ci piace immaginare lo scorrere del tempo e delle immagini proprio come su una vecchia pellicola. La metafora della vita come una grande partita di calcio e l’evoluzione della storia di Don Tonino ci lasciano in attesa. Aspettiamo di conoscere i risvolti eroici di quest’uomo la cui storia, senza nulla togliere alla sua figura, è comune o simile a quella di altri religiosi o uomini del passato. Il suo trasferimento a Sarajevo risveglia l’interesse della platea ma lo spettacolo si conclude con una velocizzazione, peraltro confusionaria, che ci fa perdere le tracce del colpo di scena sulla vita di Don Tonino, dopo aver ascoltato le accurate descrizioni dei luoghi e dei personaggi che hanno caratterizzato la sua vita. Con MALACRESCITA di Mimmo Borrelli si cambia decisamente tono. Tratto dalla tragedia originaria LA MADRE: ʼI FIGLIE SO ‘ PIEZZE ʼI SFACCIMMA dello stesso Borrelli. Spettacolo che scatena la curiosità del pubblico, nonostante la difficoltà di comprensione linguistica. Sacro e profano si mescolano nel raccontare la storia di una famiglia che “vestita” di alone mitologico, in realtà potrebbe essere portavoce di una storia quotidiana. L’immagine della famiglia malata crea una progenie malata: due fratelli vivono in una discarica- altare. Il racconto a ritroso viene esplicitato da Mimmo Borrelli, in scena con Antonio Della Ragione, quest’ultimo addetto ad una costruzione sonora effettuata attraverso alcuni strumenti tipici della tradizione. L’immagine grottesca del Borrelli fa sì che l’attore interpreti diversi personaggi, mescolando il tema del travestimento simbolico ( basti pensare all’abito da sposa bianco) e del travestimento psicologico attraverso gli effetti della follia e della personalità multipla. Maria Sibilla Ascione, simbolo della vergine sacro- profana è la madre dei due fratelli, sposatasi con Giasone, l’anticristo marito violento. Avvinazza i due gemelli che crescono nel turbinio di una “malacrescita”. Tanti gli elementi che si collegano alla cultura campana, all’antropologia, al mito, dall’antro della Sibilla a Cuma, luogo  di passaggio agli Inferi ma anche utero malato, alla “jatta” simbolo del demoniaco e presente in numerosi testi della Nuova Drammaturgia Napoletana, alla citazione di Montevergine l’unico santuario in cui erano ammessi i travestiti, al coltello e all’evirazione. Quest’ultimo diventa gesto di protezione per evitare la nascita di una progenie malata e torbida, così come i giovanetti venivano evirati in onore del dio ma si travestivano da donne per evitare la morte. Il testo è abbastanza complesso, perché viaggia dal problema edipico al concetto di società marcia, di progenie malata nata da fonti corrotte, attraverso una ricerca delle sonorità linguistiche. La performance di Borrelli è faticosa e sembra davvero che dalle sue viscere escano i demoni del suo passato. La seconda giornata del Festival si conclude con due spettacoli che utilizzano coreografie e installazioni video: L’UOMO PERFETTO di Mara Cassiani, HAND PLAY  di Davide Calvaresi. Entrambi i lavori presentano uno scorcio sulla società contemporanea, sottolineando non solo la difficoltà dei rapporti interpersonali, ma anche presentando un tema già noto, cioè quello della mercificazione del corpo. Proprio in “Hand Play” ritroviamo quest’ultimo elemento. La sensazione è quella di assistere ad un backstage di un servizio fotografico, o di vedere le immagini di alcuni dei più noti programmi televisivi dedicati alla moda. La colonna sonora tratta dai più famosi spot televisivi degli anni ’90 fa il resto. Ne “L’uomo perfetto” il rapporto tra uomo e donna viene identificato, all’inizio, in Barbie e Ken. Successivamente una donna e un uomo mostrano il dialogo tra due mondi e due prospettive diverse, in un linguaggio ossessivo e ripetitivo che non porta ad una connessione. Il tutto attraverso l’utilizzo delle telecamere in scena che rendono la costruzione meta teatrale e meta cinematografica. L’ultima giornata del Festival comincia la mattina. Il primo spettacolo, SETTE OPERE DI MISERICORDIA E MEZZO, in scena presso lo spazio off Tatà, costituisce uno studio su sette episodi. Si chiede al pubblico di chiudere e riaprire gli occhi ogni volta che lo speaker annuncia “buio-luce”. In effetti l’immagine che si proietta nelle nostre menti è quella di piccoli flash, di piccoli momenti in cui l’attore e autore, Salvatore Marci, descrive la sua condizione. Anche qui studio sulla società, ma in questo caso anche su quella artistica e teatrale, oltre che personale. I “reietti” vengono portati sulla scena e interpretati, le loro storie raccontate, le loro motivazioni spiegate, gli effetti descritti. La sensazione di grande solitudine e degenerazione della nostra società è una costante degli spettacoli di questo Festival e del teatro contemporaneo. Marci dice: “richiedo a voi e a me stesso un’opera di misericordia per ciascuna mia condizione, richiedo questo gesto gratuito e inutile per continuare a vivere”. Bravo performer, rimane in scena mentre il pubblico esce. Rimane ad imprecare e a parlare tra sé, come i più comuni barboni che girovagano con la bottiglia in mano. Quando si esce si guarda indietro, si osserva con la coda dell’occhio. Gesto che lo spettatore non fa quasi mai. E si vorrebbe tornare ad ascoltare. Ancora nello spazio off Tatà arrivano I MAGI. La compagnia Garbuggino- Ventriglia porta la buona novella. Dopo aver toccato i rapporti edipici, la società decadente, la solitudine, l’intento di questa compagnia è invece quello di ”comunicare” l’arte. I magi-attori portano la bellezza delle parole di autori come Eduardo, Florenskij, Cechov, Shakespeare e il senso del palcoscenico che solo il Varietà di inizio ‘900 poteva darci. Ci sono i sentimenti, l’ironia nel trasfigurare Amleto e Ofelia, l’amore per il pubblico, l’amore per lo spettacolo descritto attraverso l’immagine dell’attore di Varietà, genere in cui la velocità e la quantità dei numeri non prevedeva il pensiero al figlioletto malato a casa. Spettacolo a quanto pare allestito in varie condizioni e in vari luoghi, mostra la semplicità delle parole d’arte, la purezza del teatro senza gli orpelli angosciosi e angoscianti della società contemporanea. A fianco degli attori anche Tony Cattano, musicista siciliano, che con il suo trombone scandisce i momenti, i gesti, ed evidenzia l’ironia di alcune scene. Per poi concludere con una poesia siciliana che grazie all’eleganza sonora del dialetto porta immagini di amore e di sentimenti puri. Il Festival volge al termine. Gli ultimi due spettacoli esaltano il pubblico. Ancora dalla Sicilia Tindaro Granata con il suo pluripremiato ANTROPOLAROID.  Tindaro viene da Tindari, paese in provincia di Messina. Si chiama Tindaro in onore alla Madonna del Tindari. Fin qui tutto chiaro. Racconta la storia della sua famiglia e del suo paese, con ovvie licenze e modifiche, attraverso un testo che scorre veloce e che sembra ricordare i racconti verghiani. Tanti nomi, tanti personaggi, ma tutti fortemente caratterizzati, proprio come faceva Verga ne I Malavoglia. Tindaro attinge a piene mani dalla letteratura siciliana ma soprattutto dal teatro dei pupi, di cui ripropone alcuni meccanismi, soprattutto nell’interpretare i diversi personaggi in tempi brevissimi. Nessuna scenografia, una sedia, un lenzuolo, una lampadina e il suo maglione, elemento fondamentale per cambiare personaggio. Studio sul dialetto ( quello arcaico del messinese usa ancora “est” per indicare “è”) , sulle sonorità, sulla mimica, sul movimento, sulle tradizioni ormai perdute ( la bisnonna benedice il bambino sotto la buona stella del cielo). La storia, collocata in un preciso ambito storico-geografico, comincia con la vita del bisnonno fino a concludersi con all’ultimo discendente, in carne ed ossa sul palcoscenico, Tindaro appunto. Il pubblico si appassiona, si commuove ( soprattutto gli spettatori siciliani!),  le musiche e le luci aiutano. I temi della partenza, dell’abbandono della terra natia e della mafia sono presenti anche qui. Ma ciò che ci colpisce è il suicidio. Avete mai sentito il rumore che fa un uomo appeso ad un cappio? Shhhhh, shhhh, è l’anima che non vuole uscire dal corpo. Da rivedere, sempre. Per commuoversi ancora. Ultimo spettacolo: l’attesissima compagnia Fibre Parallele riempie la sala dell’auditorium. LO SPLENDORE DEI SUPPLIZI,  si articola in quattro parti. Anche qui analisi della società attraverso quattro supplizi a cui siamo inesorabilmente e tutti sottoposti, con tanto di boia in carne ed ossa. Il matrimonio è una catena, ci si incolla sul divano prendendo le sembianze della famiglia borghese. Marito, moglie e gatto. Annoiati, divisi tra due case e due paesi. Amore e odio che si esplicitano continuamente. Troppo vicini, troppo odio. Troppo lontani, ancora amore. Tradimenti e relazioni extraconiugali. Ma alla fine si rimane insieme: questo è il vero supplizio. Secondo supplizio: il gioco. Attraverso un dialetto barese di difficile comprensione, l’attore interpreta il giocatore. L’escamotage della madre morta e mai dichiarata per ricevere ancora la pensione, è degno delle comuni pagine di cronaca. Ma vendere tutto, anche l’anima, significa svendere i sogni e le prospettive. L’ambientazione in una buia stanza velata dalla luce che trapela dalle persiane, ricorda il microcosmo torbido delle opere ruccelliane. Il ragazzo vive tra realtà e psicosi, parlando con un pupazzo che ricorda il grillo parlante-coscienza. La madre riappare come demone. Il boia spoglia e lascia in mutande sulla scena il protagonista. Un piccolo trattato di psicanalisi in versione teatrale attraverso l’ironia di Fibre Parallele. Il terzo supplizio è la badante. Ci colpiscono i colori sgargianti e flou dell’allestimento. Un richiamo a Pedro Almodovar e un ribaltamento della condizione italiana. Si parla di deterioramento dell’italianizzazione. L’entrata in Italia di numerosi extracomunitari è pretesto per un’analisi del nostro Paese. Fibre Parallele vede così la nostra Italia: badanti costrette a cambiare il pannolone ad un ‘Italia vecchia e in decomposizione. E mentre sul pannolone appaiono i colori della bandiera italiana, il boia offre un martello alla badante straniera per distruggere definitivamente il vecchio. L’ironia di questo spettacolo porta il pubblico a profonde e amare riflessioni, per concludersi con un quarto supplizio: il vegano. Al di là del rispetto per animalisti, vegetariani e vegani, è forse proprio quest’ultima definizione che dovremmo approfondire. Ipocrisia o vera filosofia di vita? Il vegano viene punito in scena con una grande quantità di cibo ( vero!) che gli viene rovesciato o lanciato addosso. Quest’ultimo supplizio appare velocizzato e meno approfondito degli altri tre. La sensazione  è quella di una conclusione affrettata dopo un percorso molto lento e profondo di assimilazione da parte del pubblico.  StartUp Taranto si conclude così. Esperienza ricca sotto diversi punti di vista: apre orizzonti di confronto, di osservazione e di conoscenza sulla situazione teatrale italiana a 360 gradi. Per chi volesse rimanere aggiornato sulle attività del Teatro Tatà e della compagnia Crest può visitare il sito www.teatrocrest.it.