Comincia così la presentazione di un catalogo d’arte, costume, moda e discipline connesse, arrivato non so come a casa mia. E comincia da lì una brevissimo viaggio a Parigi con due adolescenti curiosi, che sono stati lei dappertutto e lui invece no. Vivendo, da un certo tempo il ruolo imposto di vecchia zia, mi attengo onestamente alla parte, divertita dall’incognita che la cosa rappresenta e dall’idea che “non sanno, gli incauti, quel che li attende”. Pertanto: lotta furiosa con un certo hotel di Parigi che vuole un prepagato in carta di credito e non in bancomat; lotta furiosa con l’agenzia di viaggi che non vuole saperne di trovare un hotel discreto e non lussuosissimo a Saint Germain des Prés (sulla postazione proprio non è possibile transigere poiché il tempo è poco e tutto ciò che è nei desideri è strettamente nei dintorni). Abbozzata un’ implacabile partenza di venerdì pur di ottenere un volo di linea come si deve (giacchè è ben di due altre vite che rispondo), si comincia dalle code raccapriccianti in aeroporto.
Il decollo Air France (dopo un terzo affondo in picchiata della specie aerotaxi newyorchesi sull’Hudson), mi strappa fra i denti quella imprecazione romanesca che tutti sanno e che non mi è affatto abituale, così impietosa nei confronti degli antenati in genere e in special modo di quel pilota: intanto che certi occhi, (azzurri dell’una e nerissimi dell’altro), mi scrutano trasecolati. Andrà meglio in atterraggio, resa fatalista da 36 turbolenze in volo...A Parigi, in taxi verso l’hotel, ce la metto tutta per intrattenere una conversazione disinvolta con il conducente (ne va un pò della mia attendibilità e autorevolezza) e sono fortunata: il tipo non solo capisce al volo il mio francese ma è aperto, informato e anche coscienzioso e ci porta a destinazione, in zona Musée de Cluny, in venti minuti in ora di punta. Il cielo è con noi: lasciata l’Italia in una morsa d’afa, restiamo quattro giorni sui 25 gradi e con un unico furioso temporale che si abbatte su Parigi in ore di riposo.
Alle 14 in Hotel, decidiamo di raggiungere subito il Trocadero, il Palais de la Marine e l’esposizione “Les marins font la mode”, che in Italia, tradotto con un “Vestivamo alla marinara” così pertinente la famiglia Agnelli, evoca un retrogusto di storia della borghesia, sviante rispetto ai i contenuti della mostra, imperniati su storia del costume, della letteratura di viaggio e della marineria francese. Arriviamo avventurosamente e appropriatamente in battello, avendo scoperto che una nuova linea fluviale effettua otto fermate al centro di Parigi, consentendo un insolito percorso a cielo aperto e per di più natante. Ci aspettiamo un evento speciale e affascinante, ma l’allestimento della mostra è tale che chiama in causa intelligenze inusitate. L’impatto con il Palazzo è prudente: si direbbe un vecchio edificio ben tenuto e severo, che tradisce l’appartenenza ad un ‘Arma nel rigore nella distribuzione degli spazi, ampi, luminosi e spogli di qualsiasi comfort. Invece la sorpresa c’è, è spettacolare, e si nasconde dietro l’angolo: alle sale che conservano antiche barche, sezioni e modelli di navi, strumenti di navigazione ed equipaggiamenti d’ogni tempo, aprono l’ingresso immense e imponenti prue di navi antiche, quasi tutte in legno, posizionate in sequenza strategica e isolate le une dalle altre, in modo da rinnovare, ogni volta che se ne avvicini una, la sensazione di un altro ingresso nella Storia con la “S” maiuscola: sì, una sorta di “iniziazione” al viaggio nel tempo scandita in passaggi successivi. Viste da vicino queste immagini di prua, sculture gigantesche di figure umane, animali e mostri più o meno antropomorfi, destinati a solcare le acque, annunciando all’arrivo, nel loro simbolismo, le intenzioni e le qualità dei naviganti e dei loro mandanti, possiedono ancora una immensa capacità di impatto. Si tratta di un effetto oggi impensabile e che verrebbe da sottovalutare, sia per la presunta convenzionalità degli stilemi che le informano, che per la presunta arcaicità dell’ influenza che emanano. Non è così. Ogni riduzione è davvero soltanto“presunzione”: forse perché si tratta di imbarcazioni regali e storiche, investite dell’ energia di un sogno di conquista e portatrici di flussi interi di civiltà e cultura, ciò che si comprende è che tutto questo è ancora lì: che si tratti di una sorta di Nike di Samotracia, di un’aquila in volo, di un re vichingo in armi, esse annunciano ancora oggi, con un vago tremore, la corrente segreta degli eventi. Un percorso fra esemplari storici di imbarcazioni fatali e plastici di flotte in armi è ciò che segue, con uno sguardo accurato su Napoleone e la vastità della sua impresa.
Non guastano i ritratti di epici ammiragli, oggettivamente sempre un po’ al di sopra delle aspettative quanto all’indiscutibile trapelare di una non comune personalità; in mezzo a loro, banali reperti di uniforme di marinaio informano di particolari importanti sui quali non si riflette mai abbastanza: un esempio eclatante l’inesistenza pressocchè da sempre, nei cappelli dei marinai semplici, di falde che facciano ombra al il viso, destinato perciò, inesorabilmente, a cuocersi al sole (mais pourquai?). Unica eccezione i cappelli di paglia che i matelots indossavano intorno al 1850 nei paesi caldi. Raggiungo la mostra per prima: è allestita al piano inferiore e si direbbe un defilé di moda. La mia ragazza si è perduta nel labirinto delle sale, attratta dalle rifrazioni intermittenti dell’immensa lampada del primo faro di Mont Saint Michel; arriva rintracciata dal fratello, rimasto indietro anche lui, cercando di indovinare la strategia delle grandi battaglie navali riprodotta dai plastici: segno che la cosa, con i ragazzi, funziona. Invece è dedicata, questa esposizione, alla prima donna ammiraglio d’Europa, di cui si commemora l’ingresso nella marina francese: lo si scopre casualmente in una bacheca, ma il catalogo non ne parla.. Giornalista intelligentissima e intraprendente, attraente e raffinata come la nostra Palma Bucarelli, fu conquistata dalla avventurosa vita di marina mentre conduceva un’inchiesta sulle condizioni di viaggio a bordo della flotta francese e si offrì di rimanervi. Suo malgrado le fu affidato lo studio e la cura delle uniformi, che si rivelò argomento delicatissimo e importante, ancorché apparentemente fatuo, come la mostra si diverte a spiegare, oscillando con grande savoir faire tra il serio e il faceto….
Si apprendono molte cose, cominciando dal progetto di autocelebrazione egemonica, dissimulato nel disegno di lanciare abiti di foggia marinara, dedicati all’infanzia: diabolica invenzione di ingegneria sociale, impensabile per quegli anni, voluta nel 1846 dalla Regina Vittoria d’Inghilterra giocando un brutto tiro subliminale a mezzo mondo, ovvero a tutto il mondo borghese dell’epoca. Si trattava infatti di un espediente diretto far sì che i ragazzi, così abbigliati, ricordassero alla società la potenza coloniale affidata alla flotta inglese, mantenendo a loro volta, per sempre nella memoria, una traccia di quella appartenenza. (Onda su Onda..Hitler anni dopo…) Da questo inizio la moda contagiò le generazioni più adulte, diffondendosi velocissimamente sul continente, a partire dalla vicina Francia, dove i primi furono gli addetti alla navigazione fluviale: lavoratori che, sollecitando una parità di trattamento economico con il personale della Marina, ne adottarono anzitutto la tenuta. Cosa di tale scalpore che si prestò per il Carnevale parigino, al quale le signore della buona borghesia partecipavano di buon grado, facendo passare le loro più audaci istanze di liberazione femminista attraverso l’ironia della maschera (Colette). Negli anni 1890-900, con l’inizio della balneazione, la moda riprese quota rispetto ai costumi da bagno e ciò fu su scala mondiale. L’escalation continuò sotterraneamente senza scosse e nel 1920-30 divenne di massa per i bambinetti nella borghesia di provincia: chi non possiede genitori, nonni o zii, immortalati da piccini con l’ abitino bianco e blu? Per non parlare dei personaggi famosi d’ogni ambito culturale o di potere tramandati ai posteri in quella composta, rassicurante tenuta. Bisognerà aspettare, per la sua definitiva affermazione, la fine della seconda guerra mondiale: in epoca di baby boom l’abito marinaro divenne argomento di “fashion” con una tale duttilità di fogge, tessuti, colori, declinazioni, che la passerella allestita a illustrarne gli sviluppi, finisce per offrire un potenziale di eleganza, creatività e seduzione non comprensibile se non ai presenti e in una fantasmagoria di fascinazioni firmate Chanel-Lanvin-Kenzo-SonyaRikyel-Givenchy-Yamamoto-Hermés-Valentino-Armani. E, soprattutto, Jan Paul Gaultier. Il pubblico femminile è sopraffatto.. ..e anche noi.
Ma i signori in visita non trovano di che annoiarsi: nessuna implicazione viene trascurata. La mitologia del marinaio, dall’eroe al vagabondo, dal tatuato al seduttore, dall’ubriaco all’esploratore, abita i nostri sogni ( sogni di chi resta a terra ) e attraversa ogni sorta di forma artistica: letteratura, pittura, fotografia, cinema, disegno animato, musica lirica. Corollari: il pericolo, il naufragio, l’equipaggio. Le tipologie: l’uomo rude ma ricco di esperienza, attratto dalla marginalità e che la marginalità attrae; il disertore, l’ammutinato (eroe alternativo alla morsa del sistema oppressivo), il pirata; la rivolta silenziosa del tatuato che disegna e ridisegna i contorni del suo corpo “contro”; filibustieri, bucanieri, membri di una controsocietà libera ed egalitaria. E ancora la virilità ambigua, icona della cultura gay, l’eleganza naturale dell’avventuriero, un’allure a tratti densa di superbia come in Hugo Pratt, e un solo sentimento di fondo: la nostalgia…. Fra le tante icone maschili, ognuna a riassumere le contraddittorie sfaccettature del mito, Picasso, London, Yves Montand, Marlon Brando, Humphrey Bogart, Gary Grant, Gene Kelly, Frank Sinatra, Jack Lemmon, Tony Curtis, Braccio di Ferro, Corto maltese… Appena fuori, due fermate di battello e una vivace passeggiata lungo i Quais traboccanti piccole botteghe ci avvicinano all’Ile de la Cité , dove ci inoltriamo prima di raggiungere l’hotel e da lì, dopo una sosta rinfrancante, Rue Saint Benoit per la cena. L’indomani mattina colazione al mitico Flore e poi a piedi il Musée d’Orsay, dove esattamente tre ore dopo si concluderà una esposizione dedicata alla pittura e alla fotografia dell’Ottocento in Italia. Attratti, ognuno per un diverso motivo, dalla semisconosciuta Scuola romana di fotografia e dai suoi modelli, se ne scoprirà invece la componente piuttosto di repertorio, con l’unica emozionante particolarità di offrire dal vivo, ovvero in carne ed ossa, la visione di tutta un’umanità schietta e palpitante dentro abiti d’epoca riservati al popolo, (cappelli a tronco di cono con falda e fibbia o penna di fagiano, giacchette corte con fascia alta per il serramanico, foggie svariate di imponenti collane di corallo e tessuti meravigliosi per semplici, malconci, grembiali femminili): abbigliamenti già visti soltanto in una edizione di racconti dei fratelli Grimm ormai introvabile e pubblicata da Hoepli negli anni quaranta, o tutt’al più riconoscibili in qualche particolare dei costumi, di grande ricercatezza e proprietà, che disegnò Giulio Coltellacci nel 1962, per il primissimo allestimento di “Rugantino” al Sistina.
Ma lo spazio un po’ tetro riservato ai lazzaroni, mendicanti, nullafacenti, sembra turbare i ragazzi che, arrivati ai mangiatori di maccaroni, si allontanano velocemente insinuando, in perfetto “stile Massimo Troisi”, un paio di facezie sommesse su Hugo e Gautier e l’eccessiva inclinazione francese per i “miserabili”, che sfiora l’accanimento se i poveracci sono italiani. Ciò aumenta a chi scrive la pena di dover sottolineare, tra le foto all’albumina, la presenza scabrosa di due o tre immagini di donne della campagna romana, cariche di legname (esattamente come i giovani asini che camminano al loro fianco), sotto lo sguardo trinariciuto di un uomo senza carico e armato di bastone. Sinceramente sgomenti, neppure li emozionano più gli eloquenti e mai visti prima servizi fotografici sui moti risorgimentali romani del’48 e le barricate garibaldine della Palermo 1870: faccio in tempo, però, a cogliere un’esitazione del loro sguardo, di fronte agli scatti che riprendono i procedimenti dell’archeologo napoletano Giuseppe Fiorelli, in atto di realizzare i calchi (sconvolgenti e non tutti arrivati fino a noi) dei corpi degli abitanti di Pompei, colti alla sprovvista dall’eruzione del Vesuvio. Mentre mi attardo intorno a un dagherrotipo di John Ruskin, che riprende Venezia nel 1850 e insieme una milizia austro-ungarica in tutto identica ai “soldatini di piombo” di Andersen, eccetto che per l’inclinatura della foggia del cappello, mi accorgo di essere stata lasciata un bel po’ indietro, come accadrebbe ad ogni uggiosa zietta in preda a memorie senili…Decido di raggiungere a grandi falcate la collezione del Museo al piano superiore, decisa a uscire per non tediarli oltre, quando alle spalle mi raggiunge un eccitatissimo “ZZZììa!!”.
Sulla soglia di una saletta dedicata a Renoir, la mia ragazzina mi guarda:… con gli occhi sgranati, la bocca aperta a ostentare un’emozione tra lo stupore e la gioia inesprimibili…E, con i suoi occhi, lo devo ammettere, riesco a vedere il “Ballo al Moulin de la Gallette” come non l’ho visto mai, ritenendolo da secoli una ovvia meraviglia. Gioventù e freschezza mi consentono d’improvviso un accesso come di finestra su un giardino e il Ballo mi si rovescia addosso, a sorpresa, con tutta la sua baluginante e accesa magìa …E’ una sosta appassionata, piena di desiderio, questa da Renoir, che precede un’altra pausa fra i Degas tutta diversa, dilatata da sospiri e silenziosissimi scatti di obiettivo digitale…Senonchè, un secondo dopo, di nuovo….. “ZZììa??”:…ma è Vaaan Gooogh!!”. Come descrivere il sollievo enorme (e muto di un “qui vi volevo” prudentemente represso), mentre la serie ineguagliabile dei dipinti fa il resto...? Intanto suo fratello, avventuratosi piuttosto perentoriamente sulle tracce di Cezanne e Signac, si è perso silenziosamente fra i Gauguin e i Rousseau ( e anche qui ingoio un “ci avrei scommesso” che mi scoppia ridendo in gola) dai quali sarà poi dura allontanarlo….Li libero della mia presenza e in silenziosa retromarcia recupero Monet, poi uno sguardo a Berthe Morisot e uno a Mary Cassatt, (anticipo per “Elles”, nuovo allestimento della collezione Pompidou, al 50% dedicata alle grandi artiste del secolo, ultima sosta prima della partenza), fino all’arrivo del guardiano che avverte che il museo chiude: i ragazzi sono ancora là, persi nelle loro elettrizzanti visioni. Alla Cartoucherie, dove mi sarebbe piaciuto portarli, danno un concerto Jazz: non solo non è il fasto di Ifigenia…ma per l’ autunno ci sono in programma i testi teatrali del giovane Obama….Virata a richiesta di nuovo a St. Benoit con concertino, gelato e musiche di loro gradimento….I francesi non sono granchè cordiali quest’anno, si sente una che di reazionario strisciante, forse un ‘ironia con i cugini italiani per i loro dissesti politici, ma i miei due “bellosguardo” non fanno che spiazzarli con la carineria e un contegno impeccabile….
Quando ci allontaniamo mi scopro a curiosare (ignobilmente soddisfatta e ghignante) quante paia di giovani e luminosi occhi li seguono con il disappunto di vederli andare via…