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Non stiamo per parlare di una favola, né di un cartone animato, né di un dipinto cubista o surrealista, nonostante il titolo fantasioso possa ingannare il lettore. Ma tutti questi elementi potrebbero, anzi possono, saltar fuori dalla profonda voragine in cui si incunea questo spettacolo, come se esplodessero da un cilindro di un prestigiatore. In realtà questi generi narrativi e visivi(la favola, il cartone animato, il dipinto) sono ben poca cosa rispetto alla molteplicità ricchissima di “mattoni” con cui è costruito L’AMORE È UN CANE BLU, LA CONQUISTA DELL’EST, spettacolo in scena dal 5 al 10 novembre presso il Teatro Bellini di Napoli. Protagonisti: Paolo Rossi e l’orchestra di liscio balcanico “I Virtuosi del Carso”, diretta dal maestro Emanuele Dell’Aquila.  L’idea del cilindro da prestigiatore o del carillon da cui sbuca un pagliaccio inquietante sembra essere la simbologia più vicina alla reazione visiva che fornisce questo spettacolo. Il pubblico entra in platea, mentre sul palcoscenico sembra sia esplosa una pentola che abbia riversato tutto lì, senza nessun ordine. O forse un tir o una carovana ha interrotto il viaggio, smontando tutto e riversando il carico in mezzo alla strada. Gli artisti si riscaldano in scena, questo il motto iniziale, e in effetti stiamo per intraprendere un viaggio- racconto ( ecco le due parole chiave) in cui scena e platea, realtà e finzione, storia e fabula, buio o luce, non hanno più distinzione o regole. La diacronia e la sincronia sembrano essere elementi che si intersecano continuamente, in una perpendicolarità narrativa e temporale che ha del geniale. Se l’impressione iniziale è quella di un calderone confusionario, in realtà successivamente lo spettacolo spinge il pubblico ad un viaggio lunghissimo, ben due ore, attraverso diverse strade parallele. Impossibile pensare che tutto il lavoro sia nato solo dalla mente di Paolo Rossi e infatti le altre quattro mani appartengono a Stefano Dongetti e Alessandro Mizzi, supervisore è Riccardo Piferi. La storia che fa da sostengo ad una costruzione narrativa, visiva e attoriale è questa: il protagonista intraprende un viaggio nell’altopiano  del Carso, nome geografico utilizzato per instillare, nell’intero lavoro, giochi di parole, ironie ridanciane che caratterizzano gli sketch di tutto lo spettacolo. Il nostro Admeto va alla ricerca della donna defunta, l’amore perduto che si è donato alla Morte pur di non sopportare il marito: gesto simbolico, come è allegorico lo spettacolo e, nonostante tutto, profondamente veritiero. L’intero lavoro “preleva” dalle pagine della letteratura riferimenti all’Ars Amandi di Ovidio, all’Alcesti di Euripide ( in effetti il connubio tra il protagonista Admeto e la Morte ridicola-Thanatos greca è presente anche nello spettacolo), fino al mito di Orfeo e Euridice, all’Oracolo di Delfi che diventa un Guru-Sfinge dal ridicolo accento anglosassone, scomodando anche Otello e Shakespeare, e richiamando tra le righe Dante, la Divina Commedia e l’aldilà sacro profano delle grotte carsiche di rimembranza cumana, luogo in cui Berlinguer è un’apparizione messianica-dantesca che chiede al povero viaggiatore di descrivere gli ultimi trent’anni dell’evoluzione Italiana.  Dalla recitazione, alla letteratura, al teatro, alla musica, al cabaret, alle gag, alla satira, al dramma, alla commedia, al Varietà, al cinema, al fumetto, alla pittura, fino alla profonda conoscenza letteraria e soprattutto storica, non manca nulla. Meta teatralità ma soprattutto meta letterarietà narrativa. Paolo Rossi e i musicisti indossano abiti da Far West: sullo sfondo un video ci presenta i titoli iniziali e i nomi dei protagonisti nello stile più tipico dello “Spaghetti Western” sgangherato con influssi balcanici ed elementi da carovana gitana. Un disordine spaziale, visivo, semantico che riempie gli occhi e la mente del pubblico, confondendolo continuamente e continuamente riportando lo spettatore ai diversi livelli narrativi.  “In questo spettacolo è possibile far foto, lasciare i cellulari accesi, ballare”. E in effetti gli spettatori cominciano ad essere sciolti, a ridere a squarciagola, a parlare tra loro commentando, a battere le mani a scena aperta. Un delirio scenico in cui la mancanza di regole sul palco contagia anche la platea. La nostra carovana del West (anche se il sottotitolo dello spettacolo è “La conquista dell’Est”) produce la sceneggiatura di un film, che forse si farà, o forse non avrà mai una nascita, ma è il pretesto dello sviluppo delle molteplici linee di questo lavoro. La sceneggiatura altro non è che la storia dell’innamorato che cerca la sua “Euridice” in un aldilà carsico, dove la dissacrante ironia dilania anche la religione, le religioni e le figure sacre. Stiamo scendendo ancora: il racconto multi piano è  una voragine, ricordate? Cosa troveremo in fondo all’imbuto infernale di memoria dantesca? Lucifero? Non proprio. Qui il diavolo, fondo di questa storia,  non è un’immagine religiosa né mitologica, ma è quella dell’Italia degli ultimi trent’anni. Il “protagonista –viaggiatore- contenitore di tutta la nostra cultura” è l’Ulisse che non è più alla ricerca della sua terra, poiché  vive in essa, ma è l’Ulisse che  si perde perché non la riconosce più, perché non ha una mèta, perché non sa dove andare. Gli attacchi e la satira politica non risparmiano nessuno ma il contesto esageratamente comico, festaiolo, tra luci, musica e battute, stordisce. Un girone dantesco che dura da decenni, in cui ci ritroviamo a ridere, stolti protagonisti delle nostre stesse disgrazie. Il pubblico italiano amplifica la già estrema ironia presentata in scena, perché è consapevole delle sue colpe e ne riesce ancora, inesorabilmente, a ridere. Lo spettacolo ribalta le regole, le stravolge, le elimina ( e questo è il fulcro del discorso) fino ad un estremo livello di spettacolarità che viene tirata alle lunghe, fino allo spasmo, come un tritacarne che ingoia tutto e ne fa impasto informe. Anche l’intervallo tra le due parti viene “spettacolarizzato”: si chiede al pubblico rimasto in sala di salire sul palco e di partecipare ad un casting. Si aggiunge l’intervento di un rappresentante di un’associazione di Barra che sottolinea la situazione critica dei luoghi periferici alla città di Napoli.  Impossibile descrivere uno spettacolo che dovrebbe essere solo visto poiché potrebbe dar vita a molteplici visioni come molteplici sono i piani e i livelli su cui è costruito, ma soprattutto è uno spettacolo necessariamente diverso ad ogni replica. E il cane blu? “L’amore e il cane blu sono entrambi animali molto, ma molto difficili soltanto da immaginare”. Paolo Rossi e il suo tripudio napoletano. Teatro gremito, soprattutto di giovani, e lunghissimi applausi ed ovazioni. Ma il nostro particolare plauso va anche all’ottima performance dei musicisti che, al di là della professionalità musicale, riescono a sostenere e accompagnare l’estenuante lavoro di Rossi, in una perfetta osmosi scenica.

TEATRO BELLINI NAPOLI
5-10 novembre 2013
La Corte Ospitale
L'AMORE É UN CANE BLU
la conquista dell’Est
di e con Paolo Rossi
scritto con Stefano Dongetti, Alessandro Mizzi
con la supervisione di Riccardo Piferi
musiche originali composte da Emanuele Dell’Aquila
ed eseguite dal vivo da I Virtuosi del Carso
(Emanuele Dell’Aquila, Alex Orciari, Stefan Bembi,
Denis Beganovic, Mariaberta Blašković, David Morgan)