Pin It

foto marina alessiFra poco compirò sessant'anni. Bugie non me ne posso più raccontare. E visto che scrivo adesso, questo mi sembra un bel vantaggio per voi: mi hanno chiesto di parlare del mio lavoro, e non dirò niente che non sia sincero.
Cominciamo dalla voglia di scrivere. E' diminuita, prima ne avevo di più. Pensavo, prima, che quando non scrivevo stavo solo perdendo tempo. Ogni cosa che succedeva era un intralcio, una terribile rottura di scatole che mi impediva di fare quello che veramente volevo fare. In pratica la vita era tutta una perdita di tempo, tranne quei rari momenti in cui scrivevo. Ecco, adesso posso stare anche senza scrivere e ho scoperto che non c'è problema. Ci ho messo molto ma ci sono arrivato. Se posso darvi un consiglio, metteteci meno, è una cosa che si può scoprire presto e non pregiudica affatto il lavoro.
Da un po' di tempo ho voglia di stare in mezzo alla gente perché il mio lavoro mi ha fatto diventare una specie di orso, e le giornate, il tempo atmosferico, il sole, la pioggia, gli odori, la grandine, la terra, sono passati via senza quasi che me ne accorgessi, lasciando pallide tracce dentro giorni uguali, trascorsi a giocare con le parole.
Le parole, ecco. Ma non ce ne sono già troppe? Io entro in libreria, vedo tutti quei libri, e mi gira la testa. Penso al secondo principio della termodinamica, a questa condanna che abbiamo di fare sempre più disordine, sempre di più. Vorrei riuscire a scrivere qualcosa che invece di produrre nuove parole, si mangi quelle vecchie. Che risalga di bolina il secondo principio della termodinamica, che vada a costruire un ordine facendo il minimo del disordine che la fisica consente. Per tutto ciò - e anche per pigrizia - scrivo poco. Mi ricordo una bella poesia di Bukowsky, che invito tutti a leggere. Comincia così: "Se non ti esplode dentro a dispetto di tutto, non farlo. A meno che non ti venga dritto dal cuore e dalla mente e dalla bocca e dalle viscere, non farlo".
Ho cercato di scrivere testi necessari. Non che fossero necessari al mercato, anzi. Il mercato è saturo da almeno tre, quattrocento anni. Ho cercato di scrivere cose necessarie per me. Per sentirmi vivo. E me le sarei tenute nel cassetto come faccio per le poesie, se non fossero piaciute anche ad altri, se non avessero conquistato attori e registi, se non avessero catturato pure il pubblico. E' alla fine di questa catena di mi piace, di pollici alzati, che sono diventato un professionista. Un professionista consapevole del fatto che se vuoi esserlo fino in fondo, devi provare a non perdere l'ingenuità da absolute beginner. 
Fra tutti i tipi di scrittura che potevo scegliere, ho scelto quella meno appariscente. Quella che non ti fa vincere il premio Strega ma casomai il Fondi La Pastora - che i più credono consista in un forma di pecorino. Una scrittura che narratori e cinematografari pensano di poter fare con la mano sinistra. Una scrittura che anche se pubblicata, i critici letterari ignorano, fingendo di non sapere che due dei premi Nobel che ha avuto il nostro Paese nell'ultimo secolo sono andati a scrittori di teatro. Una scrittura per un media antico, il cui hardware è fatto ancora da corde da tirare, chiodi da piantare, corde vocali da sfiancare. Solo degli imbecilli possono mettersi in un'impresa del genere, sapendo di avere qualità da dare. E io sono fiero di essere uno di quelli.
Per me lo spettacolo, quando ho in scena un testo, è il pubblico che va vederlo. Anche se è domenica pomeriggio, e hai a teatro solo vecchie signore coi mariti trascinati lì ancora con arrosto e patate sullo stomaco. Mi metto su un palco e guardo sotto, e quando sento che ridono o che si emozionano - le signore, non i mariti, quelli dormono - dico sì, vale la pena. E questa potente soddisfazione, nessun narratore la capirà mai.
Vado a teatro a vedere i miei colleghi. Spero sempre che il lavoro non sia troppo bello, perché l'invidia esiste, sennò non sarebbe nell'elenco dei vizi capitali. Sono un pessimo pubblico per loro. Però se il lavoro mi conquista, mi emoziono, vado a ringraziarli, chiamo al telefono, faccio un sacco di complimenti. Perché quando in teatro un lavoro arriva, ti sfonda il cuore, caccia i pregiudizi e ammazza i peccati capitali. Pulisce. E questo dovrebbe spronarci a pretendere molto da noi stessi, spingerci a fare solo cose belle, censurandoci da soli le brutture. Perché la bellezza è anche buona, è anche giusta. Credo che l'abbia detto pure qualche filosofo. La bellezza è uno strappo nella tela, una delle poche cose che ci fa vedere al di là, con l'occhio della mente. E se abbiamo preso questa strada, dobbiamo fare solo cose belle, altrimenti non serviamo a niente. Anzi, siamo da buttare via.
Amo gli attori. Non quando sono a tavola che raccontano i loro noiosissimi aneddoti, non quando hanno le crisi di nervi, non quando riemipono ogni angolo col loro ego malato. Li amo quando sono sul palco e inventano, e scaccolano, e ti prevaricano, ma fanno vivere i tuoi personaggi. Non ho lo stesso trasporto per i registi, perché spesso infarciscono di pretese intellettuali il loro lavoro da allenatori. Ma ho imparato a conviverci e a rispettarli.
Ho scritto un lavoro importante. Si intitola Maratona di New York. E' stato tradotto in tante lingue e recitato in tutto il mondo. Avevo trentasette anni quando l'ho scritto. Ogni stagione per quel lavoro ricevo tantissime richieste, per tutti gli altri molte di meno. Ogni volta che finisco di scrivere qualcosa di nuovo, mi vedo seduto davanti un trentenne che sghignazza e mi dice: sì, non male. Ma io ho fatto di meglio. Sono costretto sempre a confrontarmi con lui, che aveva più energia, più voglia di vincere e più freschezza di quanta ne ho adesso. Gli ho promesso che scriverò qualcosa di ancora migliore. Non so se è già capitato, spero che debba ancora succedere.
Teatrale come aggettivo ha una valenza negativa. Vuol dire artefatto, esagerato, che imita solo l'effetto senza avere la sostanza. E teatro è una parola che si porta dietro questa negatività, questo senso di palesemente finto e fatalmente noioso. Quando in una riunione di produzione in tivù vogliono bocciarti un'idea ti dicono: troppo teatrale. Be', è falso. Il Teatro può darti tante fregature, e tanti spettacoli possono annoiarti. Ma prova a sederti in un teatro vuoto, un pomeriggio, e lascialo parlare. Capirai la forza che ha. Ti innamorerai.
Penso a questo luogo antico, e penso che è compito mio innovarlo. E' compito di ogni generazione, e fin quando nessuna generazione dirà non ne ho più voglia, il teatro non diventerà un museo. Mi pare una buona idea, questa. Non so se buona in assoluto, ma capace di riempire una vita, quello sì. Capace di riempirla come ha riempito la mia.

foto marina alessi

Edoardo Erba è nato a Pavia, ha studiato al Piccolo Teatro di Milano e vive a Roma.  Autore di una ventina di testi, è considerato uno dei maggiori scrittori italiani di teatro.  Predilige il linguaggio della commedia, che usa per affrontare in modo originale i grandi temi dell’uomo contemporaneo. Ha vinto i premi teatrali più importanti, e le sue opere sono andate in scena in Italia e all’estero. In particolare “Maratona si New York” è stata tradotta in diciassette lingue e rappresentata in tutto il mondo, "Muratori" è replicata da dodici stagioni, e "Margarita e il Gallo" - premio Olimpici del Teatro - è stata in tournée nei maggiori teatri italiani.
I testi di Erba sono stati messi in scena da registi come Sinigaglia, D’Alatri, Chiti, Pugliese, Binasco, Bertorelli, Loris, Solari, Benvenuti, Rifici, Venturiello. Importante anche la sua opera di traduttore e adattatore di testi per Silvio Orlando, Gassman, Dapporto, Tognazzi, Neri Marcorè, Ghini. I suoi lavori sono pubblicati in Italia da Ubulibri e Titivillus, ed in Inghilterra da Oberon Book . Insegnante all'Università di Pavia, Erba sta curando per Mondadori la traduzione dell’intera opera teatrale di Agatha Christie.

www.edoardoerba.com