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Soltanto un anno fa, il Centre Pompidou di Parigi sceglieva coraggiosamente di rivoluzionare l’allestimento della sua collezione, riservando, da quel momento, il 50% degli spazi espositivi al sesso “debole” e dedicando, per l’occasione, una esposizione senza precedenti a ben 500 capolavori delle artiste di genere femminile: elles@centrepompidou.
Camille Morineau, eccellente curatrice della mostra parigina, riusciva a consegnare alla stampa, esattamente l’8 marzo 2009, il suo testo per il corposo catalogo espositivo. A raccogliere il testimone impugnato a Parigi provvede, con simbolica puntualità, la Galleria nazionale d’arte moderna che, in occasione di questo 8 marzo 2010, riserva al pubblico femminile l’apertura gratuita di una esposizione di straordinario interesse, dedicata dell’Avanguardia femminista degli anni ’70. Articolata con notevole intelligenza selettiva e capacità di sintesi da Gabriele Schor e Angelandreina Rorro, questa mostra bella e importante nasce dalla collaborazione con la Sammlund Verbund di Vienna: una collezione aziendale nata nel 2004 per scelta della più importante impresa austriaca di energia elettrica.
E piuttosto incredibilmente, considerata la carica iconoclasta e dirompente dei temi. Segnata, probabilmente, dall’impronta forte del percorso espositivo parigino (pionnières, feu a volontà, corps slogan, une chambre a soi, le mot a l’oeuvre, genital panic) questa mostra dal titolo: “Donna: avanguardia femminista anni ‘70” si rivela capace di testimoniare, attraverso una selezione rigorosa di opere eccellenti e puntuali, la forza di affermazione raggiunta dal movimento femminista negli anni ’70, nonchè l’evoluzione del concetto di “avanguardia femminista”, che ha svolto, in ambito artistico, un ruolo precursore inconfutabile rispetto agli ultimi quaranta anni. E sono anni importanti, in cui le artiste condividono interrogativi ed esigenze evolutive che imprimono una svolta decisiva all’immagine della donna a partire dalla donna, prospettando il “rovesciamento radicale dei ruoli a lei assegnati dalla società, l’interpretazione del proprio corpo come fonte di liberazione, la ricerca di una identità femminile autonoma e diversa”.
Nel 1949 Simone De Beauvoire aveva sottolineato in “Secondo sesso”, come certe passaggi della “Dialettica” in cui Hegel definisce il rapporto schiavo-padrone si potessero applicare benissimo al rapporto uomo-donna. A sua volta Sartre, nel 1943, aveva sviluppato l’argomento esistenzialista secondo il quale il soggetto ha la capacità di proiettarsi nella trascendenza, oltre l’immediata immanenza della fisicità. Potenzialità che De Beauvoire indica come un privilegio accessibile esclusivamente al maschile, essendo le donne, nella cornice del patriarcato, relegate nella dimensione pratica dell’immanenza….Di qui una sua frase che rimase famosa, nella seconda parte del libro: “On ne nait pas femme, on le devient”. Ma di qui anche la tendenza delle artiste, dopo gli anni ’60, ad affrontare con estrema sicurezza azioni, performances e forme artistiche alternative, che ricorrono all’uso corpo femminile, sovente il proprio, fino ad allora confinato nell’immanenza e negato all’azione, dalla dimensione disuguale che la cultura patriarcale conculcava. Si comincia con Cut Piece di Yoko Ono e si arriva a Genitalpanik di Valie Export (presente in mostra) di fine anni sessanta.
Ma l’esperienza della fisicità di genere va esplorando tipicità alternative attraverso travestimenti e maschere (Suzy Lake, Martha Wilson, Birgit Jurgenssen, Cindy Sherman, Eleanor Antin), denuncia la rabbia latente o il muto sacrificio dei ruoli imposti, (Marta Rosler, Helena Almeida, Annegret Soldau, Ana Mendieta ), si attiva politicamente con azioni provocatorie a favore della violenza alle donne ( Lesile Labowitz, Nil Yalter). 200 opere in mostra per sedici artiste: quelle indicate in grassetto al loro momento espressivo più dirompente e significativo. Leggendo le loro biografie, un dato sconcerta: almeno un terzo di queste impegnate testimoni della militanza femminista, sono morte prima di aver compiuto i quarant’anni…Sarà forse che, in questa contemporaneità sempre più segnata dal rizomatico e dal virtuale, così cari a Deleuze, fare attentamente i conti con il proprio corpo, con lo spazio intorno, con le relazioni che ne derivano, può essere logorante… non possedendo un avatar.
A meno che non si tratti di teatro, dove tutto questo è, invece, vita: e viene in mente Licia Maglietta, vedova intensamente virtuale, nel suo ultimo “Manca solo la domenica”, dove rappresenta, in chiave narrativa e marcatamente ironica, esattamente quelle pratiche di rovesciamento e simulazione di status, fin qui attribuite alle protagoniste dell’arte femminile degli anni settanta. Attitudine per l’appunto “rizomatica”, che, del resto, scaturiva dalla raffinata testimonianza di maturità professionale, offerta in conferenza al Teatro Valle, agli studenti dell’Accademia d’arte drammatica.