E’ davvero una faccenda deliziosamente complessa la riflessione sulla figura di Medea che Patrizia Zappa Mulas e Giancarlo Cauteruccio hanno congegnato nell’adattare da Corrado Alvaro “La lunga notte di Medea”: e questa è anche la ragione per la quale può succedere di dovercisi soffermare più del previsto. A soccorrere è un frammento eccellente che Christa Wolf ha posto in epigrafe al suo romanzo sullo stesso tema:

“L’acronia non è la simultaneità indifferente, ma piuttosto un intreccio di epoche disposte insieme secondo un modello stativo, una fuga di strutture che tendono ad assottigliarsi. Le si può allungare come una fisarmonica e allora una estremità viene a trovarsi molto distante dall’altra, ma è anche possibile inserirle l’una nell’altra come le bambole russe, sicchè le pareti dei tempi vengono a trovarsi molto vicine tra loro. Coloro che sono vissuti in altri secoli odono piagnucolare il nostro grammofono, e attraverso le pareti del tempo li vediamo levare le mani verso i piatti appetitosi che abbiamo preparato”.

Parole che fanno sbalzare vigorosamente sullo sfondo le immagini di due giganti come Walter Benjamin e di H.G. Gadamer, mentre, sorprendentemente, il brano è tratto da un testo introvabile di Elisabeth Lenk, allieva a Francoforte e Parigi di tutt’altra famiglia ciclopica, trattandosi di Theodor Adorno e di Lucien Goldmann.

Ciò che accade, in effetti, è il vedere come durante lo spettacolo il presupposto noto della Medea di Alvaro, ( supplice assennata, ancorchè figura sacerdotale dotata di facoltà extrasensoriali e perciò esclusa e demonizzata come pericolosa straniera) si espanda in una fuga di risonanze, in virtù delle molte letture intervenute a decodificarne il senso, pur essendo correttamente ripreso dal dettato del testo. Letture di cui non viene dato, per scelta di stile e levità, conto alcuno, ma che conferiscono respiro e portamento agli interpreti e maggiori pretesti di coinvolgimento emotivo alla platea….Si percepisce, inoltre, come lo sguardo degli adattatori si sia mosso a 360° gradi sull’orizzonte della storia drammatica e letteraria, anche minimizzando l’attenzione sui risultati di pertinenza e coesione ottenuti.
Sul piano della plausibilità del racconto, contemporaneamente alla risonanza emotiva dovuta all’attualità dei conflitti sul tema dell’immigrazione (già intuito da Grillpazer in epoca austroungarica), si colgono le scelte antipopuliste praticate da Alvaro nel ’49, insieme all’eco di un certo teatro pirandelliano (Sagra, Nuova Colonia) e di un Teatro del colore alla Ricciardi (l’opzione scenografica dell’esplosione della scena in rosso - che forse è anche congeniale di suo alla compagnia fiorentina), risalenti agli anni ’20 e mai sintonici, né allora né poi, con le direttive di Mussolini del ‘33 (a proposito di un fascistissimo teatro di masse…). Esperimenti ai quali Alvaro partecipò, sia come cronista eccellente che come amico di Stefano Landi, figlio maggiore di Pirandello.
Sul piano della fuga in avanti, si colgono piacevolmente alcune sintonie con la rivisitazione di Christa Wolf, che poggia sulla confermata inesistenza, nell’antichità, di un’iconografia che ritragga una Medea infanticida. Sembrerebbe un’invenzione di Euripide, a favore di una politica filocorinzia lautamente remunerata, poiché molte ipotesi inducono a credere che i due giovanetti siano stati lapidati da una turba inferocita di Corinzi. Ed e’ soltanto a Ercolano e in Magna Grecia che sono stati rinvenuti quei reperti vascolari e pittorici d’imitazione greca che raffigurano la maga nell’imminenza di quel particolare delitto: luoghi in cui la tragedia euripidea ebbe, si sa, fortunata diffusione. Senza contare che nel primo secolo dopo Cristo i costumi dell’Impero nei confronti del femminile raggiungono una regressione repressiva angosciosa e la storia dell’epoca non solo registra sommosse di donne, ma anche clamorosi gesti di suicidio-omicidio femminili più spinti dell’audacia maschile: vale la pena ricordare con Marziale la famosa Arria che dimostra al marito esitante come si possa morire, con un “Paete, non dolet”, detto del pugnale. Gesti estremi, dettati da un sociale impazzito. In omaggio a Corrado Alvaro e certo consapevole della teoria della Wolf, Giancarlo Cauteruccio, rintraccia a sorpresa nei suoi ricordi di bimbo del Sud le atmosfere e la lingua della Calabria e sceglie piuttosto appropriatamente di attribuire alla tragedia un’ ambientazione nella Locride invece che a Corinto. E, come Alvaro, la stessa Wolf pone l’accento sul potere visionario di Medea, quel secondo occhio che la solleva dalla piatta osservanza umana dei fatti e le conferisce statura e consapevolezza di sovrana.
La vicenda di Medea nel testo di Alvaro si apre a Corinto, dove lei e Giasone hanno trovato rifugio da un anno, insieme ai loro due figli, con il seguito di pochi fedelissimi, tra amici e servitori. Nonostante la fama delle loro imprese grandi e terribili sia rimasta viva nella memoria dei Greci, conducono una vita da esuli, poveri e appartati. Mal sopportando il disagio di quella dimensione di margine e senza futuro per sé e per i suoi figli, Giasone spera in un’accoglienza della sua famiglia nella più adeguata dimora del re Creonte. Nel mondo patriarcale ciò ha un costo che riguarda in genere il femminile, i bambini, gli anziani, poiché ogni esule di lusso che si rispetti viene inglobato nelle classi dominanti d’approdo attraverso convenienti compromessi matrimoniali, che prevedono di regola la demonizzazione e la scomparsa di qualsiasi impaccio precedente. Gli archivi diplomatici d’ogni Paese lo sanno bene. All’ormai scomoda Medea, verrà imposto l’onere necessario ad aprire la strada alle nozze dell’eroe con la giovane Creusa, figlia del re. E’ nel maturare, apparentemente repentino, di questa circostanza che si apre l’azione teatrale del testo. In casa di Medea, rimasta sola con la nutrice e i figli, si respira una strana inquietudine: i raggi della la luna, di cui conosce, da sacerdotessa, i riti propiziatori, avanzano con luce sempre più insistente nelle sue stanze, si riflettono in modo incalzante negli specchi, con la premura ansiosa di un voler fornire per tempo i presagi funesti…Possiede, Medea, il dono della visione e lentamente il suo sguardo si perde nel contorno lunare che la incanta e rapisce fino a guidare la sua percezione in presenza della scena che si svolge, intanto, nel Palazzo di Creonte.
Giasone, irrequieto, attende qui l’ingresso di Creusa, infantile, fragile e seduttiva…è la flagranza di un incontro predestinato agli accordi che favoriranno il suo rinnovato sogno di potere ( Ma regnerò. Sarò potente. Non sarò più il ricordo di un eroe. Ma un re”) e l’esilio di Medea, alla quale verrà intimato di lasciare Corinto, rinunciando anche ai suoi figli. Mentre legge gli eventi in totale lucidità e consapevolezza, una sorta di insight consente alla maga di rivedere esattamente la stessa scena tra lei e Giasone dieci anni prima a Iolco e le offre l’opportunita di capire la natura tutt’altro che sovrana di Giasone, posseduto da pulsioni di dominio che lo disumanizzano fino alla vuota replicanza : “Lui le parla. Come parlava con me. Lei lo sente. Ma non ascolta. Non capisce. Capisce solo che le piace!....... Gli stessi gesti, le stesse parole, gli stessi sguardi di quando entrò in casa mia”. Mentre elabora lucidamente il suo disinganno, Medea matura un distacco imperturbabile. A Giasone che si ostina a illudersi e illudere di non essere un esule, ma un erede regale che avrebbe potuto avere un regno risponde: “Ti fu rubato il regno. Avevi cose più importanti da compiere e chi lotta non può sedersi su di un trono. Questo di te fu grande e bello. Di te questo si ricorderà. Tu ora diventi re. Ma io di te avevo fatto un’eroe”….. “E dove trovi un’uomo riuscito che non abbia alle sue spalle una donna? E che non la dimentichi per un’altra che è una nuova promessa di conquista?”…“ Tu non volevi me ma la potenza oscura che rappresentava il mio paese”. La vicenda che segue è tristemente nota: ma è sulla declinazione dell’acme di questa tragedia che si sono andate formulando le diverse letture che le differenti temperie culturali hanno, volta a volta, suggerito nel tempo. Questa Medea ucciderà i suoi bambini per sottrarli allo scempio atroce di una folla impazzita alle porte.
Patrizia Zappa Mulas, con la sua solita raffinatezza prospettica e interpretativa sa ricavare per Medea, dal ponderoso testo del ’49, una delicata silouette di persona autentica e coraggiosa, forte, come dicevamo, di molte complesse letture e di molte sedimentate competenze, che rendono accessibili a qualsiasi pubblico i diversi strati di senso conferiti nei secoli alla vicenda enorme e controversa di una extracomunitaria fratricida, figlicida, traditrice della patria e assassina tout court.
La regia di Cauteruccio si rivela un’operazione di restyling che si sviluppa con ritmo elegante e svelto, rivivificato da tagli e montaggi impavidi quanto a interazioni, dialoghi, movimento, suono e colore. Un bel progetto, consapevole ed energico e sorretto dall’attualità di tendenza delle musiche salentine e il loro richiamo incantatorio, ora morbido, ora implacabile.
Si tratta, in breve, di una esperienza significativa e di tutto rispetto, ancorché sommessa. Di quelle che, come certi farmaci, a “lento rilascio”, si aprono una strada nell’organismo, (qui diremmo nella coscienza), medicando lentamente oscure disfunzioni cognitive, con l’apporto di sostanze che mancano o contrastano. In cartella stampa poche le letture, benchè autorevoli, sufficientemente attente al testo originario e agli aggiornamenti su quel mito, da percepire e restituire il senso culturale ed emotivo dell’impresa, da non perdersi, invece, amando il teatro, non fosse che per la qualità e la sapiente pertinenza dell’impianto scenico, delle musiche appositamente composte, della grinta appassionata degli interpreti, degli abiti di scena.