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Che gli scacchi siano considerati una metafora della vita è consapevolezza diffusa, che quella metafora si organizzi quasi naturalmente in gioco violento e cattivo, in una lotta che ha come riferimento (premio o castigo che sia) la morte è una intuizione anch'essa ormai condivisa di Marcel Duchamp che nel 1932 diede un contributo alla letteratura scacchistica con un libro dal titolo”Opposition and Sister Squares Are Reconciled”.
Luca Viganò, in questa sua bella drammaturgia che approda a Genova dopo l'esordio al Napoli Teatro Festival, ne appare conscio e così padroneggia, talora con molta libertà, la biografia di due grandi campioni del passato, organizzandola appunto in una sintassi dai ritmi altalenanti, a volte riflessivi a volte accelerati quasi al parossismo, sintassi che la scrittura scenica asseconda negli appropriati movimenti scenografici e nella adesione mimica e recitativa.
La sovrapposizione dei personaggi accentua poi il senso di distacco che l'ironia sottile della battute, anche fino al comico, sottolinea non poco, mentre i continui ribaltamenti temporali, pur su una linea coerente, e la conseguente scomposizione della narrazione sembrano fatti apposta per richiamare, nell'inesausta tensione, il Beckett di “Endgame”.
Gioco metaforico e cattivo, con una sovra-significatività che spesso i grandi scacchisti rifiutavano e rifiutano, gli scacchi in fondo incorporano la più ineludibile contraddizione esistenziale, quella di voler organizzare e anticipare razionalmente, o scientificamente nel contesto delle sessantaquattro caselle bianche e nere, il caso. Un'aporia invincibile che riguarda l'impossibile costruzione di un destino atteso o subito, perché nessuna regola può anticipare o prevedere tutte le mosse dell'avversario, soprattutto dell'avversario ultimo, la morte.
Infatti, ci ricorda Goethe direttamente sul sipario, quanti errori potremmo evitare e quanti dolori risparmiare se solo potessimo rigiocare la partita e modificare le mosse.
Così la vita di Josè Raul Capablanca e di Alexander Alexandrovic Alekhine, sotto l'abile mano del drammaturgo si snodano e si intrecciano sulla scena, fino a capovolgersi quasi l'una sull'altra e concludersi, “casualmente” e pur in tempi diversi, a 54 anni per entrambi.
L'uno, il cubano Josè, vitale, affettivo, amante delle donne e della bella vita trascinato da una sottile inconsapevolezza nel disastro economico della grande depressione, l'altro, il russo Alexis,  testardamente impegnato a studiare le mosse, tutte le mosse, della scacchiera e della vita, e da questa risucchiato nella rabbia perenne e nella insoddisfazione, esiliato dalla patria e anche dalla sua stessa esistenza, fino a trasformare l'amicizia in vendetta e la vittoria in rivalsa.
Sono molto bravi Antonio Zavatteri (Josè Raul) e Aldo Ottobrino (Alexis) a rappresentare anche nella mimica la leggerezza dell'uno e la sofferenza anche perversa dell'altro, di cui l'adesione al nazismo per odio ai bolscevichi è segno evidente fin quasi alla identificazione espressiva.
Attorno a loro Massimo Mesciulam, un vecchio giocatore di scacchi di strada, è il coro che con mano forte e sapiente ci conduce nei meandri della partita, immagine di quella che ciascuno di noi va giocando, e ancora Alberto Giusta (l'ex campione Lasker), Alice Arcuri (madre, moglie, amante e prostituta nel suo caleidoscopio recitativo), Fabrizio Careddu (padre e gangster) e Cristiano Dessì (cameriere e strillone).
La regia di Marco Sciaccaluga predilige il movimento e così con abilità anche visiva restituisce il senso della dinamica del gioco e valorizza efficacemente la drammaturgia.
Belli e adeguati come al solito i costumi di Guido Fiorato, le Musiche di Andrea Nicolini e le luci di Sandro Sussi.
Al teatro Eleonora Duse dal 6 al 24 Novembre per la stagione del Teatro Stabile di Genova, che ne è anche il produttore insieme alla Fondazione Campagnia dei Festival e al Napoli Teatro Festival.

foto: Elisabetta Giri Agenzia Cubo