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Un bambino alza il braccio sinistro, quindi prova a tenerlo alzato per un po’ di tempo ancora e ci riesce, si fa male certo, ma ci riesce, si accorgono di lui, si preoccupano per lui (è un trionfo!) e allora decide, contro tutto e contro tutti, che lo terrà alzato per sempre quel braccio, sino a perderlo del tutto rovinato d’inattività e cancrena, sino a marcirne, sino a morirne. Anni settanta, un’anonima famiglia inglese della piccola borghesia che vive nell’I-sola di White. Un gesto «…in assenza di fede. Nessun pensiero ne è causa né effetto»: un urlo senza significato, ma che pure segnala (disperatamente) una presenza. È questo, in breve, il nucleo drammaturgico di “My arm” lo spettacolo tratto da un testo del drammaturgo inglese contemporaneo Tim Crouch che l’“Accademia degli artefatti” ha realizzato nel contesto del progetto “Ab-uso”. In scena ci sono Matteo Angius, molto efficace, Emiliano Duncan Barbieri che suona una chitarra elettrica, i contributi video di Lorenzo Letizia. Lo spettacolo (visto a Catania il 4 novembre scorso, nello spazio scenico di ZO e nel contesto della rassegna “Altre scene” di “Statale 114”) è diretto da Fabrizio Arcuri. Un nucleo drammaturgico così breve potrebbe apparire persino banale se non fosse che lo spettacolo, più che rappresentarlo, gira intorno ad esso coinvolgendo il pubblico in una serie di interrogativi che sono squarci di senso rapidi, profondi, domande che svelano varchi improvvisi che lasciano intravedere un’ umanità tanto beffarda quanto sfuggente e surreale. Un coinvolgimento del pubblico che parte dallo stesso straordinario lavoro attoriale di Angius: entra ed esce dal testo, lo usa, se ne distanzia, lo aggredisce e lo propone alterandone l’impatto con ironia, e poi parla con il pubblico, monologa dialogando col fratello che compare nel video alle sue spalle oppure coi tanti oggettini (penna, portachiavi, elastico, pupazzetto etc.) che ha chiesto ai presenti all’inizio della piéce o che ha trovato poggiati su un tavolino. Sono oggetti, ma sono anche uomini e donne, i genitori del bambino, il neuropsichiatra infantile che lo ha in cura, gli amici. Oggetti le persone, oggetti i personaggi: i filosofi direbbero che si tratta di una chiara immagine della “reificazione”, ovvero della trasformazione in “cosa” dell’umanità che vive il nostro mondo, il nostro secolo liberato e capitalista. La comunicazione verbale se non è proprio falsa, resta ambigua, si muove in superficie. Forse è davvero così ma, se veramente di questo si tratta, allora la leggerezza di questo spettacolo assume un reciso valore politico e la potenza straniata, angosciante e coltissima di una tragedia che ci urla quanto lontani siamo dalla possibilità di vivere autenticamente e di percepire l’umanità di chi ci sta accanto. A meno che… non si alzi un braccio.