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Ambientazione grigiastra,  bagliori che ricordano le aurore boreali, le albe e i tramonti del Nord Europa. Sembra quasi che il freddo siberiano si intrufoli nelle nostre ossa. La costruzione scenica di questo spettacolo è fortemente legata al classicismo teatrale: il sipario chiuso, la divisone in due atti, la recitazione accademica. Ma nonostante questo, il pubblico presente, in un freddo giovedì pomeriggio di dicembre, è composto soprattutto da giovani, studenti, liceali e professori. E la vera sorpresa è costituita proprio dalla risposta mostrata dal pubblico giovane. Parliamo di un testo tratto dalla letteratura russa di metà Ottocento, di un autore, Gogol’, e di un teatro, il Mercadante di Napoli, che insieme costituiscono l’immagine del tipico repertorio da abbonamento, proposto da uno Stabile. IL CAPPOTTO va in scena dal 28 novembre al 7 dicembre, per la regia di Alessandro D’Alatri e l’ottima interpretazione di Vittorio Franceschi, che firma anche la rielaborazione testuale. Nessun colore acceso, nessuna sfumatura: il grigiore scenico è riportato sugli abiti, sugli arredi, nella vita del protagonista, nella miseria degli altri personaggi. E anche la ripetitività di una vita che non porta a nessun cambiamento è simbolicamente riproposta attraverso centinaia di fogli e scartoffie, o di rotoli di stoffe. La sensazione di una coltre spessa di polvere, sedimentata, calcificata, sulla vita e sulla scena, è inevitabile. Tre luoghi si intersecano in uno. I cambi di scena non prevedono scorrimenti di pannelli, né ribaltamenti: bastano piccoli accorgimenti, luci o oggetti, per dare il senso dello scorrimento del tempo e del cambiamento di luogo. La storia di Akàkij Akàkievič è quella raccontata dal Gogol’ letterario ottocentesco, e nonostante i rimaneggiamenti apportati al testo da Franceschi, la sostanza narrativa di fondo è evidente soprattutto nelle parti “raccontate” dall’artista ubriacone, “corifeo” russo che mostra al pubblico le teorie romantiche sull’umanità e sulla vita. Il protagonista è un copista del ministero: lavora per la Grande Madre Russia, sbeffeggiata, adulata ironicamente, il cui popolo è costituito da lavoratori corrotti, da soldati inetti,  da miserabili ossequiosi,  da ex rivoluzionari che dalla Patria non hanno mai ricevuto nulla. Tra le fila del racconto si scorgono le narrazioni verghiane, di stampo nostrano e non nordiche, ma pur sempre piccole fessure che ricordano la letteratura degli umili del Verismo ottocentesco. A tratti riemerge il Bartebly del Melville americano, racconto dello stesso periodo, per arrivare ad un tocco contemporaneo di “fantozzismo”, ironico e crudele. Il copista lavora incessantemente per tutta la vita, copiando documenti e facendo di questa attività l’unico scopo della sua esistenza. Nasce e si forma in una famiglia di copisti, in cui l’amore per la parola scritta diventa un vero e proprio sacramento, raggiungendo il paradosso. Tutta la storia è imperniata sul logoro cappotto del copista, il quale, alle porte del rigido inverno russo,  non guadagna abbastanza per farne cucire uno nuovo. Il sarto di città, ubriacone anch’egli e fiero delle sue origini da servo della gleba, si incastra perfettamente nella vita del miserabile copista. Un inaspettato aumento di paga, prima del Capodanno, da parte del viscido datore di lavoro ( e qui il riferimento al Dickens de Il canto di Natale, anch’esso romanzo dello stesso periodo, ma di ambito inglese),  permette al copista l’acquisto del cappotto nuovo. La trama superficiale si conclude con il furto del cappotto, l’ingiustizia subita, la morte del protagonista, finale spezzato  poiché, invece,  nel romanzo  egli diventerà un fantasma vendicativo che ruberà i cappotti, svolazzando per la città ( e ancora Dickens e altri riferimenti alla letteratura europea). La scelta  di fermare il racconto con la morte, elimina quell’elemento tipico e fantastico della letteratura ottocentesca, che in una nostra contemporaneità scenica sarebbe forse stato superfluo. Si sottolinea, quindi, la volontà di allestire un lavoro che abbia un senso anche nel nostro secolo, che abbia un forte impatto non solo scenico, ma soprattutto narrativo e semantico. La grande metafora che è contenuta in un semplice abito, il cappotto appunto, è la metafora universale della vita stessa, in cui ogni uomo, in ogni tempo, può rispecchiarsi. Al di là dei riferimenti alla Madre Russia, che oggi non avrebbero lo stesso impatto polemico e denigratorio che avrebbero avuto nel 1842, siamo davanti ad una giusta rielaborazione. Franceschi e D’Alatri non hanno “contemporaneizzato”  l’allestimento, bensì hanno reso universale il messaggio. Che poi è quello che il pubblico dovrebbe davvero cogliere. Franceschi ha, inoltre, alleggerito la narrazione introducendo la struttura dialogata, la forte caratterizzazione dei difetti dei personaggi, i momenti comici che smorzano il dramma amaro, tutti elementi  che inevitabilmente fanno storcere il naso ai puristi, ma che catturato l’attenzione di un pubblico giovane per ben due ore. Silenzio in sala, telefonini spenti, e grandi applausi finali dai palchetti e in platea, proprio da parte dei ragazzi, per un cast affiatatissimo, un grande protagonista, un allestimento senza sbavature, senza eccessi.

Foto Raffaella Cavalieri

Teatro Mercadante Napoli
28 novembre – 7 dicembre 2013
Il cappotto
di Vittorio Franceschi
Liberamente ispirato all’omonimo racconto di Gogol’
Regia di Alessandro D’Alatri
Produzione Arena del Sole- Nuova Scena- Teatro Stabile di Bologna
personaggi e interpreti
Akàkij Akàkievič Bašmàčkin, copista di ministero Vittorio Franceschi
Grigòrij Petròvič, sarto Umberto Bortolani
Olga Semiònovna, sua moglie Marina Pitta
Agrafèna Ivànovna, padrona di casa di Akàkij Federica Fabiani
Anatòlij Shalòmovič Kokoròv, capufficio Andrea Lupo
Andrèj Matvèievič Rastakòvskij, impiegato Matteo Alì
Nikolaj Vasìlievič Kartkòv, impiegato Giuliano Brunazzi
Ivàn Jàkovlevič Bulgàrin, impiegato Alessio Genchi
Polkàn l'ubriaco, poeta Giuliano Brunazzi
Malìk Mustàfovič, mercante Alessio Genchi
La donna ubriaca, Valentina Grasso
Il gendarme, Matteo Alì
La signora focosa, Valentina Grasso