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Nuovo appuntamento con il sempre interessante “Cantiere Campana” alla sala Dino Campana del Teatro della Tosse di Genova dal 12 al 14 dicembre. Protagonista questa volta è forse uno dei testi più complessi ed inquietanti della drammaturga inglese Sarah Kane, in cui la dimensione della sofferenza esistenziale, in questo caso

anche biograficamente riconoscibile e purtroppo riconosciuta, ed i piani della narrazione si mescolano in un intrico spinoso di difficile e comunque sofferta traduzione e traslitterazione nella scena, perché è questa dimensione per sua natura riluttante anche alla più accorta manipolazione estetica.
Talora sofferenza quasi allo stato grezzo, la scrittura della Kane, ben fronteggiata quasi come in una battaglia di scacchi dalla apprezzabile traduzione di Barbara Nativi, sembra dominare e quasi sopraffare la trascrizione scenica, in continuo pericolo e, in senso lato, sempre sulla soglia dell'auto-sfinimento quasi che il suicidio, come finalità e anche fine esistenziale, ne costituisse e sostituisse ogni tentata diversa significazione.
In una scenografia, curata a quattro mani da Elena Arvigo, che è anche la brava protagonista in scena, e da Valentina Galvani, che è invece la regista che con abilità tenta di sciogliere questo vero e proprio rebus drammatico, scenografia che vuole, riuscendovi non integralmente, rappresentare la confusione di una mente arresasi ormai ad una psicosi sempre più invincibile, si dipana, man mano più inquietante, la narrazione o meglio quel monologo dialogato tra le due parti che non si riconoscono della protagonista, ciascuna con i suoi diversi riferimenti .
Attrice e regista tentano con sapienza di sciogliere l'intrico dei piani significativi che si accartocciano all'interno del testo ma in questo sforzo di dipanare con la parola il nodo della follia imminente, qualche volta rischia di perdersi lo 'spavento' che la rara consapevolezza induce nella drammaturga e nel lettore di fronte al male.
In effetti spiegare e narrare, come detto anche con encomiabile sapienza registica e recitativa, attenua ed allontana l'angoscia, quasi la anestetizza, ma ci allontana anche dal grumo sanguinante della drammaturgia, che decontestualizzata e destrutturata forse perde uno strumento di maggiore vicinanza, una lingua indiretta (il parlare in altro modo) che ci conduca nelle sue altrimenti irraggiungibili prossimità.
Un bello spettacolo, comunque, intenso e appassionato, diretto con mano consapevole e recitato con qualità.
Aiutano le musiche di Susanna Stivali e le luci di Javier Delle Monache, in questa produzione ormai alla soglie delle cento repliche delle romane M15 e SantaRita Teatro.
Sala piena alla prima e pubblico che a lungo ha applaudito.

 

Foto Fendi