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Questa volta lo stimolo alla scrittura mi è stato offerto dal libro di Franco Ricordi, Le mani sulla cultura (Gremese, Roma 2008, 14.00 euro). L’opera rappresenta un contributo originale e argomentato sull’egemonia culturale della sinistra storica nel XX secolo, con particolare riferimento al teatro. Accolgo il tema come problema persistente e resistente che mi dà la possibilità di fare alcune riflessioni che vanno anche oltre il tema del libro.

La sinistra ha fatto un “investimento” strategico per scopi politico-ideologici sul versante delle attività artistiche e culturali, realizzando nel corso di alcuni decenni un dirigismo duplice, riguardante la produzione e la distribuzione di spettacoli dal vivo. Produzione e distribuzione sono strettamente collegate, perché – come si sa – la seconda influenza la prima sulla base di una prassi molto semplice: se tu, regista, compagnia, gruppo, vuoi distribuire il tuo spettacolo devi scegliere un testo e comporre un cast artistico che godano della nostra condivisione. Le figure preposte alla gestione del potere ai vertici dei Circuiti non pretendevano che lo spettacolo avesse un segno ideologico evidente, ma che fosse funzionale all’organizzazione del consenso piuttosto che alla realizzazione di intelligenti politiche culturali sul territorio. La sinistra storica ha “investito” nell’arte e nella cultura per lungimiranza o perché gli è stata concessa la possibilità d’ “investire”? Forse per tutti e due i motivi. Resta il fatto: l’egemonia culturale esercitata per interessi di parte. E bisogna aggiungere che allo stato attuale del conflitto politico, la tendenza a controllare le attività culturali e l’informazione non è mutata e non tende a mutare minimamente, anche con di governi di diverso orientamento politico.

L’arte dipende dalla politica, anche se la politica afferma a parole l’esatto contrario.

Nell’ultimo dopoguerra, alla “libertà” della creazione artistica si è sostituita la “necessità” dell’assoluto ideologico. Scopo: alimentare la lotta di classe anticapitalista, scrive Ricordi. Il teatro politico - sorto come risposta legittima alle aberrazioni naziste e fasciste, alla necessità di ricostruzione di un mondo nuovo dopo il ritorno alla democrazia -, si è diffuso in Europa nei decenni successivi con la fioritura di una miriade d’iniziative: nascita di teatri stabili, di compagnie legate alla tradizione e al teatro di ricerca; sviluppo dell’associazionismo di base e del movimento cooperativo. Gli anni ’70 hanno rappresentato la punta di massima espansione del movimento teatrale e della sua strumentalizzazione politica che si è avvalsa del sostegno d’intellettuali come Brecht, Sarte, Fo, e che ha trasformato il teatro politico in teatro ideologico. L’”alleggerimento della propaganda marxista” effettuato dal Partito Socialista di Craxi è servito solo a radicalizzare lo scontro interno alla sinistra e ad allargare le aree del clientelismo che ancora oggi garantiscono rendite di posizione non scalfite dal tempo. Neppure il crollo dell’impero sovietico e la caduta del muro di Berlino, che hanno segnato il fallimento del comunismo nel mondo, hanno contribuito a determinare una svolta significativa e a produrre fermenti di coscienza critica capaci di riportare il teatro nell’alveo di una politicità intrinseca all’atto della creazione artistica.

Col passare egli anni sono cambiate le parole, ma come spesso accade nel nostro bel paese – nulla o poco è cambiato nella sostanza. Il “teatro politico” è diventato formalmente “teatro civile”, ma le motivazioni e gli obiettivi strategici sono rimasti pressoché gli stessi. La situazione è apparentemente più fluida, ma la stasi permane, contrabbandata per movimento. E’ peggiorata con l’introduzione nel dibattito politico della teoria riferita ad una (reale o presunta) “cultura di destra” contrapposta ad una (reale o presunta) “cultura di sinistra”. Un’invenzione diabolica, quanto ingenua, incapace di produrre cambiamento reale. Contrapporre valori di destra a valori di sinistra ha significato creare due assoluti ideologici contrapposti al posto di uno, deprivati entrambi dell’energia necessaria per cambiare la cultura del Paese. L’alternativa reale sta nella creazione di una cultura di valori condivisi in una polis che è di tutti. Un’utopia? Un’utopia concreta.

Intanto, nonostante le alterne vicende governative, non solo non sono migliorate le condizioni di vita dei cittadini della polis che non c’è, ma sono peggiorate. La società liberale d’ispirazione capitalista – che sembrava un punto di riferimento credibile dopo la caduta dell’ideologia comunista nell’abisso degli orrori umani -, non ha prodotto il progresso umano che ci si attendeva. Mostra ferite gravi e prospettive molto incerte di guarigione. Finanza dissennata ed economia che geme. La cultura politica resta fondata sull’esercizio del potere ed è attraversata da anomalie, vizi e contraddizioni che riempiono quotidianamente i giornali. Dato lo stato di crisi, anche di valori etici, delle democrazie liberali, il traguardo della creazione della polis appare irraggiungibile. E non può che essere così, quando politica ed etica non coincidono; quando punti di vista opposti e contrari restano irriducibili anche sul fronte dello stato di necessità nazionale; quando il conflitto è permanente; quando la contrapposizione si traduce nel tentativo reiterato di prevalere sull’altro arrecando danno a tutti. E non si sa quando questo possa cessare. E non si sa chi avrà la voglia e la capacità di determinare una svolta radicale.

Parafrasando: la cosa (pubblica) ha bisogno di un come – cioè di un modo di agire e di essere – scandalosamente semplice e coerente che faccia nascere forme vive e seducenti. E’ evidente che il benessere materiale e immateriale di un popolo dipende non soltanto dalla politica economica ma anche dall’economia della cultura, essendo l’una e l’altra intrecciate e destinate al conseguimento di un unico obiettivo: l’interesse della collettività, la ragione della polis, alla quale tutti – nella diversità – dovrebbero concorrere.

Nello scrivere queste righe mi spunta un sorriso sulle labbra. Lo so, mi salva dalla vita, ma non smorza il disagio derivante dalla consapevolezza di dire cose che sono di un’ovvietà pazzesca. Cose ovvie, ma essenziali. Ampiamente condivise da cittadini inermi, ma non inerti, come me, che la politica beffardamente ignora.

Dal dramma della vita contemporanea al dramma del teatro. Nel suo libro Franco Ricordi riflette sul teatro e torna ai primordi, citando Aristotele, che – come si sa - considera il dramma come “qualcosa di più elevato e più filosofico della storia”. Partendo da questo presupposto, il regista afferma che “con quest’intuizione Aristotele ci permette oggi, attraverso le sedimentazioni di Shakespeare, Lessing, Schiller, Szondi, Gadamer, di tornare ad una concezione del dramma e della dramatis persona che rappresentano la stessa quintessenza e la possibilità della libertà culturale. Il dramma, garantendo l’esempio universale, ha sempre superato il ‘particolare’ dell’esistenza, vale a dire l’intrusione della storia nel suo ambito, quindi della possibile politica dittatoriale o di parte. La storia del teatro drammatico è dunque la storia della liberta di comunicazione e di espressione artistica, che c’è stata al tempo di Shakespeare, ma che non c’è stata nei Paesi comunisti e post-comunisti dove i contravventori ai principi e alle regole dettate dalle oligarchie politiche hanno rischiato e rischiano di essere eliminati”. E, ricorrendo ancora ad Aristotele, Ricordi rilancia la teoria della mimesis, dalla quale si evince che “lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualcosa di più filosofico e di più elevato della storia: la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare”.

Già, all’inizio era il verbo e il ritorno alle origini lascia che i fatti siano descritti. Assieme ai fatti, anche i sentimenti, le percezioni, le psicologie e i pensieri sono descritti -, seppure in modo poeticamente alto, attraverso l’uso esclusivo di segni verbali. Sulla base di tali presupposti,il teatro mimetico - con le sue esibizioni disordinate di sentimenti e con il suo naturalismo psicologico – risponde alle predilezioni di molti drammaturghi, registi, attori, ma anche di masse considerevoli di spettatori, e rappresenta - assieme al teatro pirandelliano, al teatro futurista e al teatro totale-, come ho avuto occasione di dire altrove (Teatro Totale, Titivillus, Corazzano 2006), una delle quattro aree dell’ipotetico patrimonio culturale della polis.

Il teatro mimetico è la forma di teatro più praticata nel mondo, ma non è l’unica. Ce ne sono molte altre, altrettanto legittime, altrettanto importanti: tutte necessarie per dare efficacia ad un sistema teatrale realmente pluralista. Certo, ha ragione Ricordi, la ricerca degli uomini liberi dovrebbe muovere in direzione di quel teatro politico, quello da cui scaturisce la politica, il senso profondo della vita dei cittadini, i valori condivisi che rendono forte una comunità nazionale. Ma (aggiungo io), quando si crede nella libertà della creazione artistica e nella pluralità del linguaggio teatrale si devono accettare tutte le forme di teatro che sono espressione di quella comunità. Se si critica la supremazia egemonica di una cultura malata di ideologia, non si deve cadere nella tentazione d’ignorare e di sognare la cancellazione di quello che non piace. Insomma, tra le variegate forme di teatro c’è anche quella epica – contraddetta a suo tempo dallo stesso Brecht, anche se non in maniera perfettamente chiara -, contro la quale Ricordi lancia i suoi strali, dopo averla sottoposta ad attenta analisi critica. Non piace, ma c’è. Il teatro epico è molto ideologico. Il teatro di Dario Fo è un teatro di propaganda politica, d’accordo. Ma è bene che i suoi testi (e quelli di Brecht), tra gli altri, siano presenti nelle biblioteche e nelle librerie. Se troveranno registi e pubblico disponibili, dureranno nel tempo, altrimenti si spegneranno da soli. Non si combatte un assoluto ideologico con un altro assoluto ideologico (nascosto) di segno opposto e contrario. Semmai, un giorno o l’altro, bisognerà decidersi di fare un riflessione irriverente sul nostro premio nobel.

Un conto è cullare una predilezione e un conto é negare ciò che non condivido. L’esercizio di pensiero mi aiuta a distinguere ciò che mi appartiene da ciò che non mi appartiene, perché è diverso, altro da me, ma deve anche aiutarmi a non demonizzarlo altrimenti pagherò l’errore con una perdita di realtà e di verità. Le grandi illusioni egemoniche sono destinate a cadere e a ridursi in polvere, prima o poi, sotto la spinta di trasformazioni che, prima o poi, faranno coincidere lo sviluppo con un vero progresso umano (lo spero). Non hanno bisogno di leggi speciali, ma di processi culturali che coinvolgano l’intero corpo sociale. Se credo nelle pratiche in divenire dell’unità nella diversità (lingue, linguaggi, dialetti e culture), significa che accetto il valore della diversità da cui dipende la praticabilità dell’unità di sintesi e la messa a margine del conflitto. Devo credere fino in fondo nel valore della differenza e non cedere al desiderio inconfessabile della sua sparizione, altrimenti salterà in aria la libertà creativa che volevo invece affermare.

La pluralità dei testi teatrali nell’area dello spettacolo dal vivo m’induce a fare due considerazioni logiche. Intanto, i testi non sono soltanto qualcosa di scritto (scaletta,canovaccio, partitura, scrittura drammaturgica compiuta), ma anche una rete di riferimenti teorici, di natura artistica, letteraria, storica. E poi, se è vero che ci sono tante tipologie di testi, vuol dire che a monte ci sono tanti scrittori che hanno necessità artistiche differenziate nel compiere l'atto di descrivere o di ricreare la realtà espressa dalla collettività di riferimento. E vuol dire anche che ci sono diverse modalità riguardanti la “messa in scena” e la scrittura scenica, e conseguentemente tanti prodotti e tanti oggetti artistici destinati a tanti pubblici, ognuno con le sue predilezioni e i suoi gusti. Dai cittadini agli spettatori il cerchio della libertà individuale si chiude. La libertà è un valore assoluto, non relativo. Vale per tutti e allo stesso modo.

E che dire della teologia civile, ancora a proposito di egemonia?

In un saggio, apparso sulla rivista MicroMega, Gustavo Zagrebelski dice che nell’arco di un secolo si è passati dalla teologia sociale, alla teologia umana, alla teologia civile dell’era contemporanea. Dietro l’espressione gentile della teologia o religione civile cosa si nasconde? Intanto la volontà della Chiesa di offrirsi come collante interno alle società politiche in crisi, in pieno disfacimento politico, economico, etico e culturale. Infatti, o si fa la polis o si muore. La Chiesa ha perfettamente capito la situazione e fa l’offerta, che trova perfetta sintesi in una frase pronunciata a Parigi da Benedetto XV. Secondo il Papa sarebbe necessario “Prendere una chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società”. Una sciocchezzuola.

Il ritorno ai primordi della Chiesa riporta al De Civitate dei di Agostino d’Ippona – scrive Zagrebelski -, in cui la religione civile è trattata come pratica finalizzata non alla salvezza delle anime, ma alla cura del benessere e della felice convivenza dei popoli. Tali questioni, che le democrazie liberali non garantiscono, sono sottoposte all’attenzione dei governanti come atti di amicizia e di generosità. Dalla salvezza delle anime si passa alla salvezza delle società “materialiste, disgregate, disperate, nichiliste, egoiste, prive di nerbo morale, prede di pulsioni autodistruttrici, giunte ‘ad odiare se stesse’”: questa è la “vibrante accusa del magistero cattolico”. La Chiesa si chiama fuori dai mali del mondo, criminalizza governanti e governati, si candida alla risoluzione dei problemi terreni attraverso lo strumento miracoloso della teologia civile. Le società sono imperfette. Di più, sono fallimentari su tutti i versanti e l’ordine (che è un disordine) civile non ha la capacità di trovare soluzioni efficaci.

Questo è - in tutto o in parte -, vero, ma non autorizza un “ordine” ad entrare “in un altro ordine”, in barba al Concordato (per quanto ci riguarda) e alla laicità dello Stato. Il religioso, facendosi onnicomprensivo, tende a sostituirsi al politico, decretandone la subalternità. E come sovrappiù, la funzione civile della religione dovrebbe “precedere la libertà”, cioè essere inculcata, prefigurando così un principio di autorità che metterebbe in discussione la libertà dello Stato e sotto tutela la Costituzione repubblicana. Ciliegina sulla torta: il ruolo di sovrintendente spetterebbe a “un Dio geloso” di tutte le altre religioni, che dovrebbero essere escluse dal godimento del privilegio riservato alla religione cattolica e sopravvivere in diaspora. E’ evidente che la religione civile (come il teatro civile?) nasconde dietro l’offerta di amicizia la volontà dell’intrusione e dell’occupazione dello spazio politico, sociale e culturale dei beneficiari. Un’invasione di campo bella e buona che rivela una chiara intenzione egemonica con la pretesa di garantire l’identità dei popoli assieme al loro benessere materiale e immateriale.

Sarà il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, qualche ministro o i rappresentanti dell’opposizione in Parlamento a respingere al mittente la proposta? Per ora il silenzio è assordante.