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L’Italietta corrente non fa in tempo a vedere comparire la presunta magnitudo di forconi, ‘solenni incazzature’ recenti (e ce ne fossero dei novelli Bianciardi alla riscossa!) che paiono così rinfocolare “La stagione del nostro scontento”, che una settimana innanzi giunge al parmigiano Teatro Due un reality teatrale in cui si dà eco a questioni consimili di accesa rivendicazione e affermazione sociale, di conflitti relazionali in fermento, colti però sotto l’ombra – coercitiva e coartante – ordita dagli attuali apparati di controllo e governo. Sto parlando dello show SOCIAL ERROR, ambiziosa operazione (all’insegna della multilateralità internazionale, altresì esplicata su un interattivo sito on line trilingue e persino con un “Social Error Book”) per la regia dall’ungherese Viktor Bodó e la drammaturgia di Tamas Turai, Julia Robert e in più di Anna Veress.
Coinvolto con numerosi euro-partner nel varo produttivo dell’iniziativa, lo Stabile emiliano ne presenta così gli esiti scenici nell’ambito del proprio consueto Teatro Festival Parma: il quale ha protratto i suoi diversi appuntamenti sino al dicembre ultimo dell’annata appena estinta, confondendoli forse un po’ troppo con quelli del parallelo cartellone riguardante la normale stagione di prosa.
Senonché, lo spettacolo indiziato desta interesse e curiosità per l’anzidetta tematica scottante e le peculiari modalità di configurazione ed espressione, di cui è protagonista una quindicina di dinamici interpreti composta in maggioranza da quelli della Szputnyik Shipping Company di Budapest, e da cinque attinti in loco presso la compagine interna del teatro ospitante. Il corposo gruppo raffigura così il novero di partecipanti alla tenzone rappresentata, animandone la scena – e talvolta la platea – sulle dritte di mood, linguaggi e manifestazioni che regia e drammaturgia derivano dall’universo dei reality televisivi, nonché da attigue orbite inerenti competitivi giochi di gruppo e (vi aggiungerei) Social Media annessi e connessi. Il campionario di atteggiamenti e condotte degli attori si esprime quindi per metamorfici quadri e sequenze perlopiù d’assieme, più da Community – formata per l’occasione – che da Comunità: e pertanto spesso veloci, scattanti, sopra le righe, talvolta iterativi ed estemporanei, senza negarsi peraltro qualche passaggio di suspense e d’interazione live con gli spettatori. Da dietro, un maxischermo appeso alla parete di fondo sovrasta tutti – imponente e minaccioso – facendo comparire istantanee, grafismi, colori, scritte e filmati che accompagnano l’insieme composito di azioni e momenti. Quanto appare lassù funge da commento o paradossale controcanto agli accadimenti scenici, ma soprattutto assevera ordini e comandi che promanano di volta in volta da una robotica e tronituante voce off. Per cui, i performer divengono immediatamente attivi protagonisti di una ridda di situazioni giocose oppure tese che, una dopo l’altra, tale “Voce del padrone” intima di comporre ed eseguire, mentre un cameraman gira sul palco ed è spesso tra i piedi a riprenderli per rimandarne la visione ravvicinata sul grande schermo. Si susseguono allora scene di esasperato – e forse tremendamente ordinario – “realitismo” (citando Jean Jourdheuil) in cui s’assiste alle presentazioni esagitate dei concorrenti al cospetto di pubblico e telecamera, fra boati registrati e musica disco; per proseguire con il mischiarsi confuso di frangenti dove incontri, abbracci ed espansivi avvicinamenti, lasciano subitaneo spazio a contrapposizioni da hooligans fascistoidi, corse e strisciamenti da soldati a terra, violenze e soprusi molteplici con tanto di sonore manganellate ed uccisioni sommarie fatte con l’inconsapevolezza di una risata. Sovente s’immettono improvvisi intervalli musicali, alternando classici hollywoodiani a sprazzi pop-rock, che l’ensemble balla placidamente schioccando le dita oppure scatenandosi in balli comuni da ripetere obbligatoriamente in sequenza. Altrimenti, eccolo vocalizzare a cappella motivi di vasta fama o di foggia onomatopeica, mobilitando la ritmica plasticità di membra e volti (da un lato e dall’altro) per chiudersi poi in graduali cerchie che compattino l’esecuzione, o sennò pigliando posto dietro una fila di sedie azzurre – e sotto l’impositivo megaschermo – per suonare strumenti che accompagnino esibizioni canore al microfono. Naturalmente non possono mancare i riferimenti al dannato mondo del lavoro: sicché, stoppati i mutui divertimenti e le collettive sciarade fisiche da tempo libero, gli astanti dispongono file di banchi dove sedersi faccia a faccia gli uni con gli altri per dedicarsi a digitare fintamente chissà cosa, finché qualcuno di loro esulta per avere finito “la prima parte di lavoro”. Ma l’ordinata linearità dell’approntato ufficio e l’assorta efficienza palesata sono anch’esse finzioni d’un istante, rivelate immantinente da repentini squarci musicali ora horror, ora celestiali, in cui gli impiegati sprigionano al ralenti psicosi omicide o smisurate dimostrazioni d’affetto reciproche. Oltre a posti di lavoro adeguati e dignitosi, viene proprio da dire che bisognerebbe altresì pensare a posti congrui e degni per la Psiche febbrile e bipolare degli esseri umani contemporanei. E non basta la momentanea festa a seguire e neanche la successiva ostentazione di presunta intelligenza culturale – dichiarata a più voci – a ridare lustro e slancio, senso e salda fibra a siffatti uomini e donne prigionieri, invero, di una realtà irreale perché non creata da loro in modo autonomo: bensì, da algidi apparati e sistemi di Potere irraggiungibili e vocianti dall’alto. Fare fuori persino l’elemento più debole dell’artefatta comunità in causa e trasformarsi ognuno sino a perdere addirittura l’equilibrio morale, prodursi nella creazione di una grande impresa (una “superproduzione internazionale”) e trovare l’uomo o la donna della vita in mezzo agli altri (gli spettatori convenuti), insomma provarle tutte e di più non cambia né migliora lo scenario: difatti cosparso di cartacce e invaso dal cortocircuito rumoroso del minaccioso display in tilt, prima che erompano le dolenti note di The End dei Doors. Che si vuole vincere o conquistare d’altronde di bello, di buono, di giusto, se non si è affatto padroni della propria esistenza? se decisioni e scelte – pur magari toghe, intriganti e redditizie – sono telecomandate e non direttamente compiute e vissute in prima persona? Siamo ridicoli prigionieri di un reality di noi stessi e neppure ce ne accorgiamo: incapaci di vedere perché oramai ci preme solamente essere visti, guardati e premiati purchessia; smaniosi di divenire campioni di siffatto assurdo errore sociale di cui siamo incoscienti e irresponsabili protagonisti fatui. Mentre servirebbe semmai un Esistere di autenticità dirompente, ove ciò che ognuno mette in gioco e alla prova è il coraggio di Decidere, Fare e Creare con la testa del proprio cuore e il cuore della propria testa. Per divergere, così, da preordinati e omologanti format di “Real Life” & “Real Time” dettati e istituiti da chi vuole mantenerci rinchiusi nell’intoccabile Regime dell’Irrealtà.
La messinscena di Bodó, tuttavia, riesce piuttosto a intrattenere e a sollazzare che a trasmettere parimenti spunti del genere e simili temperie di disagio e soffocante oppressione, non trovando dunque un equilibrio pungente tra l’aspetto ludico spettacolare e quello di riflessiva denuncia e/o approfondimento delle suggestioni: fatte divampare con velocità tale da bruciarsi, senza lasciare tracce di fuoco e fiamme nell’osservatore. In un’oretta di spettacolo, perciò, pure l’adozione di certi moduli da teatro brechtiano si spegne subito: troppi numeri, sketch, avvicendamenti, ingiunzioni e frenetiche trovate perché lo spettatore abbia agio di distanziarsi a sufficienza, in quei pochi momenti di relativa requie, e riflettere quindi criticamente – lasciandoli un poco decantare – su possibili discorsi, problemi e piani di senso articolati in scena al fine di acquisirne un’incendiaria consapevolezza. Che è quello cioè che serve a ciascuno di noi, oggi, nell’epoca delle illusioni virtuali e delle ipnosi teletrasmesse. Sennò, è solo “Social Error”.

Foto Michele Lamanna

SOCIAL ERROR
Drammaturgia: Tamas Turai, Julia Robert e Anna Veress.
Regia: Viktor Bodó.
Scene e costumi: Juli Balázs.
Luci: Tamás Bányai.
Musiche e suoni: Gabor Keresztes.
Media design: Andràs Juhasz e Gabor Karcis.
Direttore della fotografia: Daniel Balint.
Coordinatore tecnico: Zsolt Balogh.
Foto e grafica: Gergo Nagy.
Relazioni coi media e web: Zsofi Rick.
Assistente alla regia: Andrea Pass.
Organizzatore: Peter Toth.
Responsabile di produzione: Ildiko Sagodi.
Interpreti: Gábor Fábián, Karoly Hajduk, Péter Jankovics, Pal Karpati, Daniel Kiraly, Lóte Koblicska, Nike Kurta, Kata Petö, Nora Rainer-Micsinyei, Zoltán Szabó e Anna Veress (Szputnyik Shipping Company); Paola De Crescenzo, Francesco Gerardi, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi e Nanni Tormen (Ensemble Attori Teatro Due).
Produzione: Szputnyik Shipping Company;
in collaborazione con Schauspielhaus Graz, Staatstheater Mainz, Hungarian Theatre of Cluj-Napoca, Centraltheater Leipzig, Fondazione Teatro Due, National Theatre - Budapest.
Prima rappresentazione italiana: Parma, Teatro Due, Spazio Grande, 2 – 4 dicembre 2013.

Links:
www.socialerror.szputnyik.com/en/home.html
www.teatrodue.org
www.schauspielhaus-graz.com
www.staatstheater-mainz.com/index.php?id=1895
www.huntheater.ro
www.schauspiel-leipzig.de
www.nemzetiszinhaz.hu/page.php?item=1