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Bisogna lottare sempre nella vita. Per ogni cosa. Anche per amare. Anche per morire. Anche per lavorare. Gli artisti di teatro sono di nuovo in piazza. Mi sembra di poter dire che gli attori sono sempre stati in prima linea nella difesa degli interessi legittimi di categoria e del sistema teatrale. I registi raramente prendono la parola nei momenti difficili. Non si espongono facilmente, forse per scarsa sindacalizzazione o debole spirito corporativo. I drammaturghi sembra che non esistano. Si fanno vivi, salvo rare eccezioni, solo per partecipare ai premi di drammaturgia, forse perché troppo impegnati a cullarsi nella reale o presunta capacità di ricreare il mondo a propria immagine e somiglianza attraverso la scrittura. Sembra che non esistano, ma in realtà sono migliaia. Ormai tutti scrivono: attori, registi, operatori teatrali, studenti universitari, direttori di compagnia. Sfornano testi originali, riduzioni, adattamenti, rielaborazioni, in funzione di spettacoli che spesso stanno in cartellone per pochi giorni o settimane, prodotti da una quantità enorme di compagnie che basterebbe a “programmare” tutti i Paesi europei.

Questa volta, in clima di crisi, ho deciso di scrivere l’articolo per la Rubrica partendo da due eminenti personalità della politica e della cultura nazionale. Niente di personale, ovviamente. Un’azione irriverente che è in un certo senso “dovuta”, in quanto simboli di un potere politico (operante) e di un potere culturale (antico e ancora attivo). Il primo – il ministro Sandro Bondi – l’ho sfiorato. Il secondo – Ugo Ronfani, direttore della rivista Hystrio -, l’ho frequentato per qualche anno. Nella mia memoria li ritrovo in un episodio realmente accaduto che racconterò sinteticamente e che mi offre lo spunto per fare una riflessione - dal particolare al generale -, sulle figure degli intoccabili, che molto contano e ancor di più intimidiscono.

Bondi è stato per un paio di anni responsabile del Centro Studi di Forza Italia. Un giorno mi chiama al telefono e mi dice che avrebbe avuto piacere di conoscere il mio pensiero di esperto su alcune questioni riguardanti il sistema teatrale italiano. Mi manda un foglietto. Io rispondo e dopo circa un mese ritrovo, pari pari, le mie considerazioni sulla rivista Hystrio diretta da Ugo Ronfani come dichiarazioni del responsabile culturale di Forza Italia. Cerco Bondi. Non lo trovo. Lascio messaggi. Non ho risposta. Amen. Poi vengo a sapere che il Centro Studi è stato chiuso. Dunque, la prima dichiarazione pubblica di Forza Italia sul teatro è stata scritta, e pubblicata a sua insaputa, da un artista indipendente di sinistra. Questo, anche questo, è il Paese Italia. E’ evidente che, senza il mio scritto, il dottor Bondi non avrebbe saputo rispondere alla questioni poste da Ronfani per Hystrio, facendo fare un “buco” giornalistico al suo “movimento”. Ma al di là dello stile dei rapporti, non è grave che Bondi non conoscesse le problematiche del sistema teatrale nazionale, non è grave che abbia continuato a ignorarlo facendo negli anni successivi il portavoce del suo capo carismatico, e non è grave che sia stato nominato Ministro. E’ grave che sia stato nominato ministro dello spettacolo dal vivo. Questa, anche questa, è la politica del Paese Italia.

Ora il ministro si sarà circondato di esperti, ufficialmente incaricati come consulenti, questa volta. Siamo nelle loro mani. Ma il pragma del poeta mi spinge a dire che finora si è visto molto fumo e niente arrosto. Infatti l’arrosto si è bruciato e gli artisti - a rischio occupazione - sono costretti di nuovo a scendere in piazza. Al di là del fatto che il ministro sappia o non sappia che esistono tante forme di comunicazione e di espressione teatrale, sappia o non sappia la differenza tra lo spettacolo (che lui ama, come risulta dalle icone museali scelte per la pubblicità “Il teatro allunga la vita”) e il teatro (che io prediligo), mi sembra di capire dal suo fare/non fare che il teatro in generale non conti niente per questo Governo, il che può essere considerato un sublime un atto di coerenza. Finalmente un ministro che non ci ammorba con la retorica del grande valore sociale del teatro, dell’arte e della cultura. Finalmente una parola chiara e coerente. Il teatro non ha valore strategico nella costruzione della polis. Non serve. Basta tenere in vita i grandi organismi della tradizione immobile che fanno spettacoli e qualche compagnia che fa teatro per giustificare un pluralismo di facciata. Gli altri, quelli che con il loro teatro non allungano la vita, tornino a casa da mamma e papà.

Che le compagnie teatrali siano troppe sono d’accordo. Che la massa delle unità produttive vada sfrondata sono d’accordo. Che la riforma vada fatta sono d’accordo. Non sono d’accordo che vada fatta una riforma che non sia una riforma, ma l’ennesimo compromesso che non risolve i problemi. Questo è il punto. Che riforma si vuole fare? Cosa si vuole cambiare? E, sia chiaro, ponevo le stesse domande anche quando c’era il Governo di sinistra. Quel Governo ha messo qualche soldino in più, ma non ha fatto la riforma, che doveva essere anche un riforma del mercato, che un mercato della libera concorrenza. Il mercato teatrale è sottoposto, come ho già detto in altra occasione, ad un dirigismo violento, governato da poche decine d’intoccabili. Per questo - e anche per questo, - è necessaria una riforma vera, quella che non è stata fatta ieri e che temo non verrà fatta oggi.

Intanto per fare un riforma bisogna credere in tutte le forme di teatro e di spettacolo esistenti, bisogna ritenere che tutte le forme siano necessarie in un sistema realmente pluralista e degne della massima considerazione da parte dello Stato. I buoni propositi di ieri e di oggi non servono a risolvere i problemi, non servono a ridare speranza, non dicono nulla e non risolvono nulla. I silenzi, i vuoti, e le icone pubblicitarie che allungano la vita invece dicono molto. Parlano e mettono in allarme. La bellezza è morta? Mi guardo attorno e vedo ancora qualche scintilla brillare nella notte, ma penso che la bellezza, se non è morta, è di certo agonizzante.

Chi è l’uomo che avrà il coraggio di fare una riforma vera? Chi avrà il coraggio di smantellare i gruppi di potere e le rendite di posizione formatesi nel corso di decenni? Chi avrà il coraggio di scontentare gli amici? Chi chiuderà la forbice abissale che si è aperta tra interessi legittimi e illegittimi, tra pensare altro e cercare di vincere sull’altro? Chi farà la mossa per tornare ai primordi e azzerare tutto? In altre parole, chi saprà ricominciare daccapo come se, paradossalmente, il teatro e lo spettacolo non esistessero, facendo una legge semplice, molto semplice, capace di fare pulizia? Cosa si nasconde dietro i buoni propositi? La difesa dello status quo. Tutto cambierà perché tutto resti com’era: questo è l’allarme che scaturisce dai silenzi, dai vuoti reiterati e dalle icone pubblicitarie. Un principio che attraversa la storia di un popolo geniale, creativo, laborioso, ma sempre pronto al compromesso, che a volte è un bene e che a volte – come in questo caso – è decisamente un male.

I silenzi non sono vuoti, sono vuoti pieni di silenzio. Non interessano una o due regioni italiane, ma attraversano l’intera penisola, tutti i settori delle attività umane. Si tratta, mi pare, della tanto vituperata cultura del silenzio, non collusa ovviamente con la mafia, ma che possiamo chiamare tranquillamente mafiosa. E se ci sono silenzi più importanti e silenzi meno importanti, mi sia consentito citare quelli che sono più vicini al mio lavoro professionale. Sarebbe bello se qualche studioso coraggioso cominci a dire qualcosa sul teatro ideologico, di propaganda, “mortale” come direbbe Brook, del nobel Dario Fo. Sarebbe bello se qualche altro studioso articolasse un ragionamento utile sulla teoria e prassi della scrittura drammaturgia di Eduardo De Filippo, il quale trattava il personaggio come fosse un organismo vivo, una persona, invece che un lessema, e conseguentemente chiedeva ai suoi discenti universitari di scrivere con sentimento, perché quando ci vuole ci vuole. Scrivere con sentimento e pompare sentimenti: ecco, il passaggio che lega il drammaturgo all’attore se stesso nel teatro d’intrattenimento. Kott e Brecht, diversamente, ci hanno insegnato che non bisogna avere un atteggiamento di soggezione nei confronti dei classici, ma da noi Fo ed Eduardo, e non solo, non solo loro, sono intoccabili. E anche il buon Ronfani – che ho citato a proposito di Bondi - è stato per lungo tempo un intoccabile che ha gestito un considerevole potere attraverso il lavoro critico, la direzione della rivista, la presenza nella giuria dei premi di teatro, la presidenza dell’Associazione dei Critici Teatrali, che ai suoi tempi non ha passato di certo i momenti migliori. Non sono state poche le energie profuse dal nostro critico, e da molti altri della sua generazione e della generazione seguente, a sostegno di alcune idee quantomeno bizzarre.

Non è bizzarro – anzi, è legittimo - apprezzare lo spettacolo d’intrattenimento che dice tutto, anche l’indicibile. Non è bizzarro – anzi è opportuno - elogiare quel tipo di teatro quando produce spettacoli affascinanti e divertenti. E’ bizzarro non stroncarli (già, qual’è il motivo?) quando (come nella maggior parte dei casi) risultano un fallimento. E’ bizzarro, entrando velocemente in alcuni dettagli, ignorare che il teatro è corpo, non è parola, perché anche la parola è corpo. E’ bizzarro, come ho già detto, ignorare che il personaggio sia un lessema. E’ bizzarro non sapere utilizzare drammaturgicamente e non sapere sceverare criticamente un sistema di segni, oppure ignorare l’incidenza della dualità della natura e della cultura umana nella scrittura drammaturgia, nella scrittura scenica e nell’arte dell’attore. E’ bizzarro pensare – secondo una tesi malata di assoluto ideologico -, che si possa fare teatro soltanto partendo da un testo (anche perché c’è testo e testo), riconoscendo a questo lo statuto di opera unica e al drammaturgo il ruolo di autore dello spettacolo.

In conclusione voglio dire che è legittimo amare lo spettacolo tradizionale (che cerca vanamente d’imitare la vita e che si fonda sulla trasformazione della parola scritta in parola parlata, con arredi e ornamenti conseguenti), ma non è legittimo considerare questo tipo di teatro come il teatro, con l’implicita condanna di tutte le altre forme di teatro che non sono considerate teatro, ma la negazione del teatro. I fallimenti ci sono su tutti i versanti produttivi, insieme a qualche perla. La garanzia assoluta non c’è in nessun ambito. Né in quello dello spettacolo né in quello del teatro. Tuttavia va detto che molti artisti che hanno fatto teatro (invece di fare spettacolo) sono stati riconosciuti eminenti maestri dell’arte teatrale e sono stati accolti nella rete distributiva pubblica con quindici o venti anni di ritardo: un fatto dovuto al settarismo ideologico di pochi che hanno agito consapevolmente o inconsapevolmente a danno di molti, alzando muri di silenzio o diffondendo falsi idoli e false verità.

Tutti gli uomini hanno ovviamente il diritto di manifestare le loro predilezioni - anche gli uomini di potere , ma non hanno il diritto di far passare le predilezioni per verità assolute su quel determinato tema, ambito, metodica, forma, linguaggio, estetica - soprattutto se sono uomini di potere che non vogliono in nessun modo suffragare la filosofia del pensiero unico con tutto quello che comporta di barbarico. L’uomo di potere ha una responsabilità in più, quella di fare opinione e di trasformare l’opinione in marchio. Solo praticando in modo effettuale il principio del pluralismo artistico, diventa un uomo di cultura. In caso contrario, come uomo falso diventa un falso uomo.

In conclusione, voglio dire che vedo profilarsi il pericolo di una rivincita dello spettacolo sulle variegate forme di teatro, quindi il riaccendersi dei conflitti tra tradizione e ricerca, peraltro mai sopiti, proprio nel momento in cui le pratiche di un ministro coincidono sostanzialmente con le teorie imperiture della parte più conservatrice della critica militante, provenienti anche da altra sponda politica. E di conseguenza temo il riaccendersi della contesa tra i tifosi della scrittura drammaturgia e i tifosi della scrittura scenica, che farebbe saltare in aria il principio di libertà applicato alle metodiche di lavoro e all’autonomia artistica, con un imprimatur – dato il vento che tira - a favore della prima. Sono contrario ad appiccicare marchi. E ancor di più a favorire rigurgiti. I danni provocati dai cavalli di battaglia di uomini che avevano in mano teatri, riviste, giornali e circuiti sono ancora sotto gli occhi di tutti. Ai marchi di sinistra non vorrei che si aggiungessero a dismisura i marchi di destra, così da aumentare il numero degli intoccabili.