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Ha scritto qualcuno da qualche parte che il segreto di un buon lavoro teatrale sta nel fatto che il cambiamento (in meglio o in peggio) appare verosimile: verosimile, necessario sino al punto d’essere evidente a tutti (al pubblico sopratutto) ad eccezione di quelli che invece ne sono protagonisti sulla scena. È quanto ci vien fatto di pensare mentre cerchiamo di capire il motivo strutturale per cui “Chi ha paura delle badanti?”, il nuovo spettacolo del palermitano Giuseppe Massa, che s’è visto al Teatro Coppola di Catania il 19 gennaio scorso, colpisce positivamente. Si tratta di un ottimo lavoro dal quale traggono conferma positiva non solo il talento e l’autonomo percorso artistico di Massa (che lo ha scritto e diretto) ma anche quelli del resto della compagnia “Suttascupa”: Simona Malato (Olga),  Emilano Brioschi (George) e Cristiano Nocera (Emil) attori in scena, mentre musiche (un Rachmaninov, che dà respiro, tono e profondità a tutta la messinscena) e luci sono curate rispettivamente da Cristan Zucaro e Vincenzo Aiello. L’abbrivio tematico è dato allo spettacolo dall’interrogazione su cosa davvero ci induce a pensare ai rumeni come a un popolo di violenti e di malavitosi: si tratta di un pregiudizio razzista ovviamente, di un pregiudizio che prima ha riguardato altri popoli migranti (gli albanesi, per esempio) e che per decenni è stato rivolto a noi italiani con gli stessi toni e nelle stesse identiche modalità. E poi, chi sono i rumeni che incontriamo più spesso nella nostra esperienza quotidiana? In gran parte e semplicemente delle donne che, spinte dal bisogno di lavoro vengono a vivere in Italia per esercitare il mestiere di badanti e accudire persone anziane, malate e comunque non autosufficienti, laddove per gli uomini di questa nazionalità è assai più difficile trovare lavoro dalle nostre parti. Così accade che – ed entriamo nel merito della finzione teatrale di Massa - due giovani uomini decidano di travestirsi da donne per fare le badanti di una ragazza italiana paraplegica. Un travestimento evidente ma che, per motivi diversi ed esigenze opposte, non conviene a nessuno dei protagonisti della vicenda svelare ed ecco che scatta qui il nodo drammaturgico: la ragazza sa bene le sue due badanti, quelle due cameriere pazienti e servizievoli, vittime delle sue follie e dei suoi continui capricci isterici, sono in realtà due giovani maschi e sa bene, lo percepisce con chiarezza, che entrambi vivono nei suoi confronti delle continue pulsioni affettive ed erotiche mentre d’altro canto lei stessa sente forti le medesime pulsioni nei loro confronti. Tuttavia questo erotismo, pur condiviso, si trasforma in crudeltà, cinismo, disprezzo cul-turale reciproco, difficoltà di comprensione, diffidenza, desiderio frustrato, si trasforma in odio soffocato, in violenza bestiale, diretta e indiretta, in tentazione di prendere tutto e subito, in comicità grottesca, in voglia di fuggire (e di tornare in patria) ed in tragedia, in tragedia infine. Tutti elementi e sentimenti che sulla scena si concretizzano in gesti, azioni, parole, finzioni, densità di motivazioni reali e scenicamente verosimili, in cultura teatrale (la lezione de Le Serve di Genet è visibilissima ma senza vuote citazioni) e soprattutto in lettura, autenticamente politica, di un segmento vivo e bruciante della nostra contemporaneità nazionale, europea ed occidentale. Uno spettacolo davvero interessante insomma, pensato ed equilibrato con tre protagonisti di grande efficacia sulla scena. Unico difetto (ma si era già notato nel “Riccardo III”, lo spettacolo precedente di questo ensemble) l’uso di alcuni elementi simbolici (tra gli altri, la bandiera turchese stellata dell’Unione Europea e una maglietta azzurra addosso alla ragazza con su scritto “150 anni di mafia”) che rendono troppo evidente ed esplicito il punto di vista politico della messinscena: ovvero la critica all’ipocrisia politica, italiana ed europea, che crea e allo stesso tempo combatte con colpevole ferocia queste mostruosità sociali e culturali. Si tratta di una e-splicitazione non solo superflua, ma che aggiunge alla costruzione di senso dello spettacolo elementi retorici di “(anti)-politicamente corretto” che stridono davvero con l’autenticità (umana e politica) di quanto accade in scena.