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Alcuni angeli non riescono a volare, portano un peso dietro, quello dell’indifferenza degli altri. Di chi passa vicino e non li riconosce, di chi non comprende le richieste d’aiuto, di chi crede che l’amore sia quello delle frasi dei cioccolatini. “L’angelo della gravità” di Massimo Sgorbani (Premio Speciale della Giuria Riccione 2001) racconta il bisogno d’amore e di riconoscimento che si nasconde dentro la bulimia, le apparenze, gli sprechi, il materialismo e il consumismo contemporaneo. Si parte da un fatto di cronaca realmente accaduto per raccontare la solitudine e il dolore di un giovane mentalmente instabile. Stati Uniti, qualche anno fa. Un uomo ossessionato dal cibo e dal sesso, dal bisogno di possesso, commette un omicidio, sta per essere impiccato ma l’esecuzione viene sospesa a causa del peso: la corda non reggerebbe. Il monologo, prende corpo in un flusso ininterrotto dove passato e presente convivono, mescolandosi continuamente. Il giovane racconta la sua vita (il rapporto conflittuale con il padre, l’amore per la madre, la ricerca di un amore) fino al momento dell’esecuzione. Il fatto di cronaca è il punto di partenza per interrogarsi sulla nostra società. La compagnia NoveTeatro (per la prima volta a Milano) da molto tempo compie un percorso di ricerca sulla drammaturgia contemporanea. La scelta è ricaduta su questo testo per due motivi: la forza drammaturgica di una parola scenica tagliente e dolce al tempo stesso, che sa coniugare le contraddizioni contemporanee e il grande impatto sociale di un testo che diventa denuncia sociale e riflessione collettiva. Proprio per questo, l’attore è stato scelto valutando la sua possibilità reale di dare corpo a un angelo. Dalle note di regia: “Non è solo un attore che stiamo cercando, ma un corpo che lo contenga e trattenga. Un Angelo tra quelli meno volatili”. La regia attenta e misurata di Domenico Ammendola, sottolinea i passaggi di tempo e spazio, ricorrendo, grazie all’abilità di Lorenzo Savia, ad un suggestivo gioco di luci e suoni diffusi: note fisse, cupe, come i pensieri ossessivi che non danno tregua al giovane protagonista; armonie melanconiche che esprimono il suo bisogno di leggerezza, di amore, il suo bisogno di volare, di andare oltre la gabbia consumistica in cui si è rinchiuso. La regia traccia una linea di percorso su tematiche sempre attuali, accogliendo in un bianco immacolato una parola teatrale che ha fame d’amore. Una parola scenica che scorre come un fiume in pena. Un testo surreale che racconta la storia di un uomo con evidenti problemi di disordine mentale, ossessionato dal cibo. Ma è anche la storia di un’eresia. La tragedia di Dio nel dolore umano, l’impotenza di fronte al bene che non sappiamo fare e al male che facciamo. Ed è proprio questa impotenza che Cristo rende propria, regalandoci un amore senza misura e senza ragioni. Quante volte lo dimentichiamo? Il giovane bipolare, nei momenti di lucidità rifletta su questo amore che non ha trovato, figlio di una nevrosi collettiva di una cultura essenzialmente laica e materialista, nella quale lo slancio religioso è sempre mischiato a elementi profani; una cultura in cui l’oggetto diviene divinità, espressione di un desiderio che non si riesce a canalizzare, pura ossessione. Infatti nel racconto del protagonista il supermercato diventa un luogo sacro. Per questo il testo racconta anche l’eresia di un’epoca, in cui il consumo stesso è diventato la più diffusa delle religioni. E l’angelo che era in scena,  Leonardo Lidi, con gesti pacati e misurati, attento a tutte le sfumature, ha saputo dare corpo e voce alle visioni, ai pensieri scenici, dell’autore e del  giovane regista.

Milano, Teatro Oscar, 22 gennaio 2014