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Il fatto di cronaca sul quale tenterò qui di lanciare uno sguardo “teatrale” (e tralasciando aspetti di tipo giuridico che non mi pertengono) è apparso su  “la Repubblica” del 16 marzo 2014: un detenuto del carcere di Poggioreale, Vincenzo Di Sarno, condannato per omicidio, è gravemente malato a causa di un tumore maligno al midollo osseo: chiede innanzi tutto la sospensione della pena con ricovero domiciliare, poi la grazia, con conseguente scarcerazione, al fine di praticare l’eutanasia per evitare una morte in carcere. Il Presidente Napolitano chiede ora in sostanza la scarcerazione, “pur consapevole che il reato commesso dal detenuto in questione è stato fonte in altri di dolore che merita rispetto e considerazione”; nel frattempo la Presidenza della Repubblica ha chiesto e ottenuto dal Dipartimento Amministrazione  Penitenziaria la garanzia che le condizioni di salute siano costantemente ed adeguatamente controllate, con eventuali ricoveri ospedalieri d’urgenza, come è stato fatto mentre scrivo queste righe, su disposizione del magistrato di sorveglianza.
Il caso è  profondamente problematico, umanamente impressionante, in quanto: il detenuto ha commesso il più grave dei delitti, un omicidio, uccidendo un extracomunitario, durante una rissa! E sta scontando la pena di 16 anni di reclusione: i parenti della vittima del Di Sarno si sentiranno davvero “rispettati” e “presi in considerazione”, nel caso venisse scarcerato per curarsi o addirittura per praticare l’eutanasia? E dove e come vivono i parenti dell’extracomunitario vittima del Di Sarno? Sarebbero rintracciabili? E se il detenuto ottenesse la grazia, anche parziale, anche sotto condizione, e, per sua grande fortuna, o magari “miracolosamente” guarisse, che succederebbe? La grazia dovrebbe essere revocata onde consentire il ritorno in carcere del condannato? Se invece le sue condizioni di salute dovessero aggravarsi senza ragionevoli possibilità di sopravvivenza, dovrà andarsene all’estero per praticare l’eutanasia? O potrebbe seguire la prassi voluta da Piergiorgio Welby? E in questo secondo caso compirebbe un secondo reato, non essendo materia regolata dalla legge quella relativa all’eutanasia, rendendo paradossalmente complice di tale reato in qualche modo addirittura il Presidente della Repubblica? Oppure si farebbe in modo che nella fase finale della vita si possa sostenere che è stato sospeso solamente l’accanimento terapeutico? E la madre del detenuto, che sta conducendo da fuori il carcere la battaglia intrapresa dal figlio, finirebbe per essere anch’essa complice di un reato?
Nel greco antico la parola “problema” significava “domanda”, e la forma delle frasi sopra scritte è proprio quella interrogativa. E nell’antica polis il teatro poneva quelle radicali domande che provenivano da conflitti, rivendicazioni, dubbi che la vita sociale continuamente poneva; e ogniqualvolta veniva rappresentato un caso non regolato dalle leggi, il teatro doveva accendere nei cittadini un dibattito utile a trovare le soluzioni ritenute migliori: queste non erano di fatto offerte dal teatro stesso, e in un certo senso ciò rendeva gli autori drammatici liberi di svolgere qualsiasi ipotesi, anche quella di semplicemente “mostrare” i vari casi, più che “dimostrare” le tesi da sostenere assolutamente; o, all’estremo opposto, ipotizzare scenari paradossali, incredibili, rivoluzionari, ecc. E oggi, nell’età moderna (e postmoderna)? In un mondo globalizzato e capace di offrire spesso qualsiasi soluzione anche con l’ausilio della tecnoscienza? Oggi il teatro può in qualche modo riferirsi ai fatti della vita per porre domande, per offrire ipotesi di soluzione ai vari eventuali conflitti? O forse col “teatro dell’assurdo” di metà Novecento si è come tracciato un limite oltre cui l’arte teatrale non può andare?
Torniamo al nostro fatto di cronaca per osservarlo dal punto di vista teatrale, lasciando come ovvio che nei giorni successivi a queste mie righe, la realtà dei fatti prosegua il suo corso. Innanzi tutto posso affermare che in un teatro di “rappresentazione” questo fatto di cronaca offre molti elementi di base: il protagonista; gli aiutanti-collaboratori, e gli eventuali oppositori; gli obiettivi da raggiungere; i conflitti che derivano dai tentativi posti in atto nel raggiungimento degli obiettivi stessi: mancherebbe naturalmente il finale se volessimo realizzare un istant-drama senza attendere la conclusione reale della vicenda: cosa non obbligatoria proprio perché si agisce comunque su un piano simbolico, e appunto fictional. D’altra parte ogni fatto della vita, anche se portato  alla conclusione del suo farsi, è sempre passibile di interpretazione, ancor di più se comprende aspetti appunto problematici.
Se ora volessimo attuare un teatro di testimonianza, o un teatro documento, basterebbe una certa aderenza allo svolgimento dei fatti, e magari lasciare un finale aperto: un drammaturgo esperto, un regista e degli attori scrupolosi, saprebbero porsi su una linea di tradizione teatrale napoletana, dato l’ambiente in cui si sta svolgendo questa penosa vicenda. Se invece volessimo tracciare una linea interpretativa più libera dei fatti fin qui accaduti e conosciuti, senza però trattarli come un puro e semplice pretesto, ma senza nemmeno intenti predicatori o didascalici o apodittici, allora si schiuderebbero varie opzioni: provo a disegnarne una, lasciando gli eventuali miei 25 lettori, di manzoniana memoria, a inventarsene altre.
Io sceglierei come protagonista, o co-protagonista, la madre del Di Sarno: potrebbe essere un personaggio ancor più teatrale del figlio: in quanto Madre in un certo senso avrebbe disco verde per scegliere tutti i modi utili ad aiutare il figlio; un eventuale giudizio dello spettatore sul suo operato difficilmente sarebbe tranchant; una madre, per la nostra cultura, perdona e sopporta tutto pur di salvare un suo figlio. Anche drammaturgicamente tale scelta comporta un vantaggio non piccolo, e cioè che differentemente che dalla figura del figlio, carcerato, la madre non avrebbe condizionamenti spaziali e d’azione: basterebbe che in alcuni segmenti dell’intreccio s’incontrino per sfogarsi, piangere, litigare, e decidere man mano il da farsi. Va detto che un nodo conflittuale interessante si aggroviglierebbe a proposito dell’intenzione del figlio, in caso di peggioramento letale della malattia, di ricorrere all’eutanasia:  tutti ci chiederemmo se una madre può accettare questo da parte di un figlio, o piuttosto aspetterebbe, pur lottando con tutte le sue forze, la fine naturale della vita! Ancora dal punto di vista drammaturgico e teatrale a mio parere tornerebbe utile la presenza come personaggio di una sorella del carcerato, più disponibile ad assecondare  e accettare in ultima istanza le intenzioni del fratello: si verrebbe così a svolgere  un secondo conflitto interno alla famiglia dei protagonisti; naturalmente a livello drammaturgico non vi è l’obbligo che la vicenda si chiuda per forza con la scelta dell’eutanasia; tra l’altro, data la scivolosità della materia anche dal punto di vista giuridico, occorre un altro personaggio, cioè l’avvocato della famiglia Di Sarno, al fine di mostrare tutti i risvolti, i vuoti, e le possibilità che la legislazione vigente presenta in ordine alla scelta di fine vita. Infine mi pare necessario anche il personaggio del Magistrato di Sorveglianza, che fa da ponte sia con il Ministero competente, sia con la Presidenza della Repubblica: è la figura chiave a livello istituzionale, perché è in base ai suoi convincimenti e atti che le altre due istituzioni prendono a loro volta le decisioni di loro  competenza, soprattutto in riferimento alla concessione della grazia. Quindi si tratta di dar corpo, con questi cinque personaggi, sulla scena, ai conflitti tra varie forze: quella del bios, che comprende anche la malattia e la morte; quella culturale e sociale della Legge; quella interiore dell’amore materno  e del legame di sangue sororale; quella politica che può  comunque intervenire con nuovi dispositivi giuridici (leggi sul fine vita; leggi sull’indulto, e così via); mi sembrerebbe opportuno, come avviene in molta drammaturgia contemporanea “dell’epilogo” (come ha studiato Franca Angelini), che il testo che si sta qui profilando, più che mostrare i fatti, dovrebbe appunto mostrare lo scontro, il conflitto tra le varie forze in campo rappresentate dai cinque personaggi, conseguenti ai fatti.
Eviterei di far trionfare anche una sola delle forze intendendo per trionfo quello simbolico, etico, ideologico: è chiaro che in un caso come quello qui esposto la legge e le sue istituzioni non possono che averla vinta, in ultima istanza: ma sul piano teorico, della visione immaginativa, della giustezza della giustizia, ogni scelta, ogni idea, ogni azione possono avere le loro ragioni, possono aver diritto ad esistere nella trama della Realtà umana.  D’altra parte anche iconicamente la Giustizia stessa è rappresentata con una bilancia: basta un grammo in più o in meno a farla pendere da una parte o dall’altra: per chiudere direi dunque che il nodo dei nodi è qui rappresentato, a mio parere, dalla seguente trafila possibile:
il già condannato Di Sarno si aggrava, e in scienza e coscienza i medici esprimono un parere prognostico senza più speranza; il Capo dello Stato concede la grazia; il carcerato viene liberato e torna nella casa della madre; il Capo dello Stato dichiara di non rispondere delle successive azioni del graziato; costui ormai in fin di vita predispone, con la madre e la sorella disperate, ma non opponentisi, l’attuazione su di sé  dell’eutanasia: qui lascerei il finale aperto, anche per rispetto della situazione reale a cui mi riferisco.
Lascio pure ai miei 25 lettori di dare un loro eventuale parere, e comunque do loro il nuovo appuntamento per il prossimo mese con un altro Fatto di cronaca.