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Come ho scritto nell’avviare questa rubrica, andare alla ricerca dei teatri vuol dire andare alla ricerca delle forme in cui si manifesta la bellezza (assai rara) del favoloso possibile del teatro, ma anche - perché no? – del grande teatro della vita reale (se e quando le azioni eccezionalmente la rivelano). Farò alcune riflessioni inconcludenti sulla ricchezza della vita, sull’osservatore respinto e sul principio di relazione, prendendo in esame le immagini relative ad alcune azioni fisiche di un anonimo cittadino a beneficio di un gruppo di anatre selvatiche, l’immagine di alcune donne africane e l’immagine di un’architettura fisica della Roma antica. Prima alcune premesse: schematiche, ma non inutili. La fotografia non è una imitazione, ma una ri-creazione della realtà, come il teatro, la danza, la pittura, e ogni altra opera d’arte. Così come non esiste lo spirito e la lettera di un testo teatrale, non esiste lo spirito e l’immagine di una fotografia. Lo spirito è la lettera. Lo spirito è l’immagine. Se prediamo per buono quello che dice Rudolf Arnheim, dobbiamo ritenere che l’opera è analizzabile attraverso una serie di principi, quali l’equilibrio, la forma, lo sviluppo, lo spazio, il movimento, la dinamica e l’opposizione delle forme. Parla al cuore a alla mente degli uomini e - come vedremo – anche degli animali.

1. La ricchezza della vita. La bellezza è poesia. C’è, ripeto, la poesia dell’arte e la poesia della vita. Non coincidono, ma si manifestano attraverso i comportamenti. Ne ho avuta l’ennesima conferma nei giorni scorsi, quando mi sono trovato per puro caso di fronte ad una visione davvero sorprendente. Un’anatra selvatica ha costruito il nido in cima al tetto di una casa. Tutto bene fino alla nascita di dieci anatrelle, che – non potendo volare – non sanno come raggiungere il laghetto che sta oltre la strada. Mamma anatra si danna l’anima, ma non sa come risolvere il problema. Il proprietario della casa, dopo lunga e accurata osservazione, prende l’iniziativa e comincia a parlare alle anatrelle. Le invita ripetutamente a scendere. A fare un saltino. Ma, attenzione, una alla volta, non tutte insieme! E’ ovvio che le anatrelle non capiscono le parole dell’uomo, non ne afferrano il significato letterale, ma comprendono il senso della fisicità espressa, comprendono il suo fare e il suo modo di fare. Sono l’espressione corporea e il tono dei suoni articolati che parlano. Il tono e l’espressione hanno una forte qualità energetica e determinano la comunicazione tra l’uomo e gli animali. Compreso il senso della proposta del padrone di casa, le anatre – dopo non poche esitazioni - decidono di saltare una dietro l’altra nelle sue mani. Ritmo, energia, sincronia perfetta di movimenti. Tutto si realizza in pochi secondi sotto gli occhi esterrefatti di alcuni passanti, i quali si rendono conto che ora le anatre sono a terra, ma non possono attraversare la strada a causa delle automobili che transitano su entrambe le carreggiate. Si mettono in mezzo alla strada, interrompono il traffico, prendendosi per mano creano una doppia fila trasversale e stimolano le anatre con suoni articolati e inarticolati a utilizzare la corsia preferenziale e a passare dall’altra parte. Via, presto, avanti! In fila, mamma anatra in testa, gli uccelli attraversano la strada, poi il prato, s’immergono nelle acque del laghetto e si allontanano, nuotando. Quanta ricchezza ho visto in quelle azioni! Ci ho ritrovato i principi che sono alla base della valutazione delle opere d’arte indicati da Arnheim. Non essendo “comportamenti restaurati”, cioè costruzioni, ma elementi costitutivi di un evento naturale, quelle azioni – è evidente – non possono essere ripetute, cambiate, indossate come una maschera, perché appartengono al teatro della vita, ma quanto sono state emozionanti e seducenti. Mi hanno offerto l’occasione per riflettere sul fondamentale rapporto tra fisiologia e codificazione dell’antropologia teatrale e per auspicare che nella finzione scenica del teatro d’arte non venga mai a mancare la ricchezza della vita ri-creata.

2. L’osservatore respinto. Prendo in mano le foto di alcune donne africane. Si tratta di donne invisibili. Le donne invisibili hanno occhi, ma non sono osservate. Hanno parole, ma non sono ascoltate, non sono parlate. Sono presentate – con effetti di post produzione - come nuvolette colorate in un cielo meraviglioso senza terra. Macché! Il sorriso non le salva dalla vita. Vengono da territori dove l’albero è un essere vivente degno di grande considerazione, dove l’acqua è un elemento prezioso per la vita. Vengono da luoghi dove la bellezza è morta, dove la speranza nella trasformazione delle loro condizioni sociali è assai fioca. Questa è la verità disattesa. L’autore della foto non vede le donne invisibili, vede se stesso e si affida interamente la propria abilità tecnica. Le trucca. Le sottopone ad un volgare abbellimento. Così le donne, non diventando artisticamente visibili, restano socialmente invisibili. Non sono viste come cuori e menti palpitanti che aspirano a sottrarsi alla emarginazione o allo sfruttamento, ma come creature liberate dalle necessità della vita materiale. Insomma, una mistificazione. Così l’osservazione non mi spinge alla creatività, ma verso il sogno autarchico rappresentato delle loro mani che si uniscono. Sì, se mettessero insieme i loro occhi, le loro parole e i loro straordinari talenti rifarebbero il mondo; se mettessero insieme tutto questo regalerebbero un cuore nuovo al mondo. Ma, osservando l’opera, sono costretto a lottare contro l’immagine, a cancellare intuitivamente il belletto, a registrare il velo della superficie e, dietro il velo, a scoprire il vuoto della bellezza estetica. Non ho visto lo sguardo dell’autore, ma il suo sapere posticcio. Non ho visto la tecnica al servizio della comunicazione, ma il tecnicismo della tecnica che rende false le donne invisibili, lontane mille miglia dalla realtà, tradendole nella loro essenza immateriale. L’opera le nasconde invece di rivelarle. Le nega invece di esaltarne pensiero e anima. Le trasforma in favolose principesse, invece di rendere utopia concreta il loro e il loro progetto. Insomma, la fotografia è solo una bella immagine. Puro involucro. Involucro meravigliante che non produce sorpresa, che non implica profondità dello sguardo, che non gode del suffragio del comportamento poetico. E quando non c’è bellezza poetica, non c’è arte. Il risultato finale è – dunque - un’immagine formalmente bella che potrebbe star bene in un salotto chic, un atto di solidarietà ipocrita, un oggetto dell’autocompiacimento e del trucco dell’autore che strizza l’occhio al mercato e basta. E sotto la cipria scopro un doppio inganno. Quello subito dalle donne, che non sono osservate, e quello subito dall’osservatore dell’immagine, che viene svuotato dello sguardo, e perciò respinto: deprivato della possibilità di compiere un atto creativo autonomo di seconda generazione.

3. Il principio di relazione. Lascio le fotografie delle donne africane e osservo quella che riguarda un’architettura fisica, assai nota, della vecchia Roma. La osservo attentamente non per bearmi di nostalgia o per inseguire facili suggestioni. M’interessa verificare – a fronte degli orrori dello sviluppo urbanistico moderno -, se gli uomini hanno creato quegli spazi e quelle architetture fisiche rispettando il valore di relazione con l’uomo, ma anche per riscontrare la capacità di estensione dell’autore dell’immagine. L’artista non imita. Porta ad essere ciò che prima non c’era. Le immagini sono belle, se ricche di significato intrinseco. Non nascono dall’acqua immobile di Narciso, ma dalle acque fluttuanti e torbide di Afrodite. Rallegrandosi della morte di Narciso, l’autore mi offre il “notturno romano” di un’opera che ha tenuto conto dei bisogni dell’uomo e che m’induce ad immaginare silenzi di luce e di ombra riempiti concretamente da un flusso discreto di operosità tendente ad unire il giorno alla notte. Una utopia concreta che mi sembra dettata non dal culto estetico del bello, ma dal senso concreto della bellezza legata ai principi di funzionalità e di necessità. Si sa, c’è la tecnica e lo sviluppo della tecnica. Ma non sempre lo sviluppo tecnologico coincide con il progresso umano. Manca spesso la relazione con l’uomo, con le sue necessità vitali. E questo vale per tutte le opere dell’uomo. Per le architetture fisiche come per le architetture linguistiche riferite alla creazione artistica, anche di natura teatrale. Se rispondono solo alla tecnica, finiscono per ignorare le regole fondamentali della necessità, della concretezza, della relazione. Non sono fatte per l’uomo-uomo, ma per l’uomo-macchina. La tecnica senza relazione genera forme morte e nel campo dell’arte l’oggetto perde la capacità di portare con sé il corpo dell’ombra. La luce non è luce umbratile che illumina la verità, ma è metafisica della luce, che ha solo la parvenza della verità, perché non risponde ai bisogni dell’uomo totale. Ne discende che l’oggetto, qualunque sia la sua natura, è bello non come puro involucro, ma come involucro che risponde concretamente all’uomo nella sua interezza. Altrimenti se ne allontana. Non lo sfiora neppure. Perde valore. La bellezza decade e muore, quando l’oggetto lo ignora.