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La penna di Ariel Dorfman ha toccato il tema delle atrocità perpetrate da dittature sudamericane in diversi generi letterari, dal saggio al dramma all’articolo. Lo scrittore argentino-cileno pare dare il meglio di sé nel testo drammatico, quando la violenza e il sopruso di incarnano in volti e parole, dialoghi taglienti.

Paulina Salas è stata rapita e violentata 15 anni prima. Una sera suo marito tarda a rincasare, una ruota dell’auto si è bucata. L’automobilista che l’ha soccorso lo accompagna a casa e resta a dormire nella loro bella dimora vicina al mare.
Basta una voce a riaprire una ferita lontana nel tempo. Quella voce, quell’ospite inatteso è lui, il violentatore, parte di quel gruppo che le fece violenza per punirla del suo impegno politico molti anni addietro. Paulina lo tiene in ostaggio, rivive il dolore, gli impone una confessione, lo tiene in scacco. Suo marito, membro della commissione governativa per l’indagine sui drammatici fatti della dittatura, evolve da posizioni legaliste e tiepide alla drammatica comprensione che il dolore deve essere risarcito con fatti e parole.
Dorfman parla del Sudamerica e della storia recente ma soprattutto parla della sempiterna sete di giustizia dell’animo umano. Una giustizia che esige a ogni costo una riparazione, quasi al confine con la vendetta. La vittima si fa carnefice, la legalità e la razionalità incarnate da suo marito incontrano l’abisso della sofferenza e ne colgono l’eco maledetta. La riparazione, quella riparazione che esige Paulina con la pistola spianata, è una confessione chiara e netta, costi quello che costi. La parola diventa risarcimento, diventa luogo della purificazione dell’anima perché riconosce una verità, un fatto, un accadimento che tutti tacciono.
D’altro canto la banalità del male si palesa in tutta la sua assurdità. L’automobilista misterioso è un medico con moglie e figli, la persona più insospettabile, colui che dedica la propria vita a salvare le vite altrui. Eppure il male è sgorgato anche dalle sue azioni, imperioso e  animalesco, frutto di una isteria collettiva che si è fatta politica e ha lasciato spazio al lato ombra dell’umano.
Resta l’amaro in bocca. Dove sta il bene e dove sta il male non è per niente chiaro. Oppure è chiarissimo. Il male pare sgorgare dove meno te l’aspetti e – cosa assai più dolorosa – richiede una catarsi fatta di lacrime e sangue.
Sullo sfondo la composizione di Schubert “La Morte e La Fanciulla” pare scandire il dramma. Era sulle sue note che lo stupratore  abusava di Paulina e ora diventa la necessaria via del riscatto dell’anima mediante la rivalsa sul carnefice.
Lo Spazio Tertulliano (via Tertulliano 68, Milano) pare la cornice ideale per questo spettacolo. Teatro di recente apertura, non in centro e quasi in periferia, propone una stagione molto orientata al contemporaneo nella sua complessità. Sorto in un ex opificio, affiancato da loft di creativi e new media, rappresenta bene quella Milano post-industriale,e post-Milano da bere, post boom economico che ha sete di cultura, ma rifugge l’istituzione teatrale d’antan.

Fino al 16 febbraio allo Spazio Tertulliano di Milano