E’ nata prima la musica o la parola? Per discutere attorno a tale questione e più in generale attorno ai rapporti tra pensiero musicale, emozioni, cervello e linguaggio, nel mese di settembre del 2009, si sono riuniti a Milano alcuni studiosi (neurologici, neurochirurghi, psicologi, musicologi…), che hanno formulato una ipotesi interessante. Secondo gli studi più recenti nel campo delle neuroscienze, il linguaggio musicale e il linguaggio verbale hanno un centro privilegiato situato nella medesima area cerebrale, chiamata area di Broca (dal nome del suo scopritore). Pur avendo una origine comune i due linguaggi possono però disgiungersi, separarsi, distinguersi e in definitiva differenziarsi. Due le cause: o l’insorgenza di patologie gravi di tipo neurologico (come nel caso di Ravel) o la vittoria della cultura (presumibilmente bastarda) sulla natura (presumibilmente saggia). Il linguaggio verbale e il linguaggio musicale – per il fatto di avere un’area cerebrale di riferimento comune – hanno, quindi, come antenato illustre un linguaggio che molti secoli addietro li comprendeva tutti e due. In altri termini, sembra che gli uomini primitivi (ci sono flauti che risalgano a circa 45 mila anni addietro) praticassero un linguaggio fatto di musica (soprattutto) e di parole (poche).

L’ipotesi è di rilevante interesse anche per chi si occupa di teatro. Il fatto (se di un fatto si tratta), in un’epoca caratterizzata da idiote pratiche “interdisciplinari” o “multimediali”, chiarisce che quel processo di comunicazione implicava la pluralità del linguaggio. Ecco, questo è il termine giusto. Indica la direzione di lavoro. Indica la tecnica che serve alla produzione di una miscela linguistica eterogenea e che attribuisce all’opera una natura di tipo intermediale, intertestuale, polidimensionale e sinestetica. Il fatto stesso stabilisce inoltre che la pluralità del linguaggio - oggi usata correttamente in alcuni ristretti ambiti artistici e culturali -, è stata inventata 45 mila anni addietro, quando il linguaggio verbale era presumibilmente estremamente limitato. Con questo si può dire che il linguaggio musicale è nato prima del linguaggio verbale? Non so se si possa dire questo. Comunque, secondo l’ipotesi formulata dai ricercatori riunitosi alla Bocconi di Milano, si può affermare che il linguaggio degli uomini primordiali consistesse nella combinazione di suoni articolati e di suoni musicali, realizzando una pluralità di linguaggio minimale, ma di sicuro interesse storico e culturale.

Evidentemente quegli uomini avevano bisogno di comunicare non solo idee, pensieri e progetti, ma anche sentimenti, desideri e rudimentali psicologie, dimostrando di essere molto più avanti di tanti drammaturghi contemporanei che praticano una scrittura fondata esclusivamente sulla parola scritta, destinata ad essere trasformata in parola parlata. Se si può accettare di comunicare un pensiero con le parole, è quantomeno discutibile accettare la manifestazione di un sentimento attraverso il linguaggio verbale. Ci dà fastidio nella vita, figuriamoci nell’arte! E’ meglio il sentimento d’amore dichiarato con le parole “ti amo”, oppure il sentimento espresso attraverso un comportamento concreto e coerente, che dice il sentimento senza dichiararlo?

Sì, d’accordo, le parole servono molto nella vita. In teatro un po’ meno. Ne servono poche: studiate, calibrate e combinate in modo rigoroso, per dire e non dire, al di fuori – dico io - di strategie mimetiche o descrittive. Poche, come erano poche quelle che usavano gli uomini vissuti 45 mila anni addietro. In teatro le parole dovrebbero essere usate non per dire la verità, non per dire le verità possibili e immaginabili, ma per mentire. Le parole sono straordinariamente utili per dire menzogne, per mistificare, per nascondere. Sono paraventi, vie di fuga e corazze che risultano indispensabili quando si finge, quando si vuole separare l’essere dal sembrare, quando si vuole provocare un danno o un conflitto. Per esprimere un sentimento, una sensazione o una psicologia mi sembra che la scelta migliore sia assumere comportamenti adeguati. Meglio, se sono poetici. La parole mentono, mentre il corpo non mente mai? Mi sembra che le cose stiano così.

Nella vita reale il drammaturgo può dire cento, mille volte “ti amo” alla sua innamorata senza correre il rischio di ricevere un pugno in faccia, ma in teatro, no. Se nell’ambito della scrittura ripete quelle parole; se dichiara, manifesta e descrive a parole tutti i pensieri e tutti i sentimenti che gli passano nella testa, è certo che metterà l’attore nella condizione di fare un lavoro alienante e lo spettatore di chiedere il rimborso del biglietto. Meglio, molto meglio è quello che facevano gli antichi, combinando parole e suoni per comunicare il dicibile e l’indicibile della loro vita. Una pratica la loro, fondata – come ho detto - sulla pluralità del linguaggio e perciò sulle “azioni in lavoro” – con tutto quello che ne consegue sul versante dei ritmi, delle energie o della intensità dei flussi -, che mette in evidenza la quantità variegata delle azioni medesime. Le azioni sono tante e di diversa natura: fisiche, verbali (a condizione che non spieghino), sonore, musicali, visive, spaziali, oggettuali, luminose, relazionali, eccetera, eccetera, come ha ben spiegato Barba in un magistrale scritto sulla “drammaturgia”.

Tornare ai primordi non vuol dire guardarsi indietro per diventare di sale. Vuol dire tornare alla sorgente biologica delle energie vitali, al presupposto fondante della dualità della natura e della cultura umana, alla combinazione di “azioni in lavoro” nella prospettiva di un valore aggiunto dato dalla complessità dell’opera, dal mistero, dalla poesia (oltre la grazia). Si tratta di una pratica che trova fondamento nelle neuroscienze e che alcuni scienziati collocano alla base dei processi di comunicazione dei nostri antenati, vissuti 45 mila anni fa.