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Ci sono domande che mi tornano alla mente. Ne voglio riportare alcune, assieme alle risposte che ho dato in varie occasioni: seminari, progetti formativi, interviste. Prima, però, voglio fare una rapida riflessione sullo stato della formazione professionale nel nostro Paese.

La rivoluzione teatrale del Novecento, eliminando la pedagogia diffusa - tipica dell’Ottocento -, secondo la quale l’attore apprende per contatto, ha reso impraticabile la formazione dell’attore articolata per materie e per generi, sulla quale tuttavia si attardano le scuole pubbliche e private del terzo millennio. I motivi dell’impraticabilità sono fondamentalmente due. Primo, se manca l’ambiente di riferimento delle famiglie d’arte, le materie non trovano più un’organica integrazione. Secondo, la pratica ignora l’uomo totale: in altri termini separa ciò che invece deve essere considerato in modo organico e unitario.

I contenuti e le metodiche riguardanti l’arte dell’attore del Novecento non sono entrati nei programmi didattici delle scuole di teatro. Al cadere delle prime foglie autunnali appaiono manifesti pubblicitari che mettono in fila una serie di parole magiche, assicurando la risoluzione di ogni tipo di problema. Gli insegnanti sono attori e di registi che, non trovando lavoro, si riciclano con disinvoltura come sedicenti maestri di “impostazione della voce”, “comportamento scenico”, “movimento ritmico”, “psicotecniche”. Si tratta di parole che funzionano. Funzionano come specchietto per le allodole, che rivelano molto su quello che si farà oltre la porta d’ingresso della scuola.

Mi pare allora di poter dire che la formazione si muova, in generale, verso un sistema frantumato d’insegnamento. Tanti insegnanti per tante lezioni separate e distinte. La formazione che fa a pezzetti la didattica, fa a pezzetti anche l’uomo. Quando si tengono separate cose che invece dovrebbero essere affrontate in modo organico e unitario, s’ignora, come ho detto, l’uomo nella sua interezza. Non ci vogliono dieci o venti insegnanti per lavorare con un gruppo di lavoro. Ci vuole un maestro. Un maestro vero e alcuni bravi collaboratori, che – tanto per fare un esempio -, non insegnerebbero mai la danza fondata sui processi di astrazione e sugli stilemi coreografici, quando l’allievo sta facendo il lavoro sulle azioni fisiche per arrivare all’autogestione dei processi organici e alla scoperta della soglia, perché significherebbe indurre l’aspirante attore a guardarsi fuori invece di guardarsi dentro, favorendo l’esteriorità della forma e il velo dell’atto rappresentativo. Giorgio Taffon nel suo brillante intervento "Una riflessione a mo' di recensione" ci ricorda che “I maestri del Novecento teatrale, i Padri fondatori, ci hanno insegnato che in scena occorrono assolutamente due condizioni dell'agire: la precisione e il controllo, e assieme la capacità di essere autonomi e originali e inventivi, pur nell'ambito predeterminato della partitura”. Precisa inoltre che “non c’è separazione tra teatro agito e teatro danzato” e che nel teatro danzato “è la tecnica delle azioni fisiche a primeggiare”.

La scelta della scuola, del maestro, della metodologia di lavoro non è né neutra né indifferenziata. Un esempio banale. Il trucco non è necessario per recitare, ha raccontato un giorno Grotowski. Tuttavia, se un attore vuole usarlo, nessuna norma può impedirglielo e nessuno può dare per scontato il crollo dell’architettura su cui si regge il punto di vista che l’ha indicato come superfluo. Va bene il viso truccato, il viso non truccato o la maschera, a condizione che si sappia che i risultati sono direttamente proporzionali alla scelta fatta. E sul versante metodologico, dove sono in gioco questioni di complessa rilevanza, vale lo stesso discorso. Sono libero di scegliere il metodo delle azioni fisiche, la biomeccanica o le tecniche della mimesi, l’importante è che io faccia una scelta consapevole in conformità a una corretta informazione e ai risultati artistici che voglio conseguire. La pratica corrente tende a far passare il valore di una formazione indifferenziata, buona per ogni tipo di teatro, che non tiene conto di un dato di fatto fondamentale, e cioè che ci sono contenuti e approcci metodologici diversi per diverse proposte formative per diversi tipi di teatro per diversi pubblici. E’ importante allora che il giovane attore non solo goda della libertà di scelta, ma abbia la possibilità concreta di fare una determinata scelta, in funzione di un determinato obiettivo. Quanti sono, oggi, i maestri riconosciuti? Esiste un’offerta differenziata, qualitativamente alta, di formazione professionale? Quale Ente (Stato, Regione, Comune, Provincia) si è posto il problema della trasmissione del sapere con riferimento al patrimonio dell’attore del Novecento? Perché nel nostro Paese non c'è né una Casa delle Drammaturgie né un Istituto di Alta Formazione? E ancora. Perché la formazione professionale è a senso unico e guarda solo in direzione del teatro mimetico, contravvenendo al principio fondamentale del pluralismo fattuale che andrebbe a beneficio di tutti i teatri?

Non c’è da stupirsi più di tanto, se nella rete delle scuole di teatro si scoprono i segni di arretratezze inquietanti, se la stasi somiglia al movimento, se la razionalità del potere fa cadere frane d’irragionevolezza che mettono a margine l’arte. Ci risiamo: la ragione armata non serve. Così come non serve contro la fame, contro la guerra, contro le disgrazie che l’uomo si procura da solo, ragionando troppo o troppo poco, legato com’è alla dismisura degli interessi economici o delle ragioni di stato. In realtà le cose sono più semplici di come appaiono a chi ragiona troppo o troppo poco, e l’uomo potrebbe far bene una quantità maggiore di cose.

- Cosa occorre per fare bene l’attore?
- Occorre imparare a disimparare.
- Che vuol dire?
- Vuol dire che il modo migliore di recitare è quello di non recitare.
- Allora bisogna essere veri.
- No, bisogna essere credibili.

- Cos’è l’emozione?
- L’immagine-concetto (frutto della mente) stimola il corpo, il corpo reagisce e la mente lo controlla. E così di seguito. Se il corpo si trasforma (Artaud ha detto che la carne diventa corpo glorioso), determina un movimento. Ebbene, l’emozione è questo movimento. Ed è un movimento trasferibile allo spettatore.

- L’attore come fa a trovare l’ispirazione?
- L’ispirazione non è prodotta dalla volontà e non è uno “stato emozionale” pompato dall’attore. E’ uno stato di grazia che si fisicizza nello spazio scenico. Il problema va quindi posto in altri termini.
- Come ci s’impossessa allora dell’ispirazione?
- Attraverso l’autogestione del processo organico, che presuppone il lavoro sulle azioni fisiche e che in prospettiva consente all’attore di entrare nella dimensione della soglia.
- Cos’è la soglia?
- E’ il luogo della contesa, dove valori opposti e contrari sono irriducibili.
- E il risultato finale?
- Sono le forme organiche: vive, emozionanti, credibili .

- L’attore come fa a concentrarsi prima di entrare in scena?
- Si concentra, se pensa alla prima azione fisica del suo personaggio.
- Quindi deve pensare a una cosa concreta.
- Le idee, i sentimenti e le psicologie non sono abbordabili.

- Cos’è la seduzione?
- Il teatro è un’arte. E l’arte dell’attore non può prescindere dalla seduzione. Se la possiede, è un artista. Se non la possiede, è un rispettabile professionista. Durante uno spettacolo teatrale mi capita di veder entrare in scena un attore e di avere voglia di scartare una caramella. Un’altra volta, sto scartando una caramella, entra in scena un attore e smetto di scartarla. La caramella è la cartina di tornasole del potere di seduzione. L’attore se stesso non ha charme, pensa a dire le battute nel modo giusto (ma qual è il modo giusto di dire le battute?). L’artista è in possesso di facoltà straordinarie, fa il prim’attore perché ha charme, ha charme perché vede, e se vede, diventa una visione. Purtroppo anche chi non ha charme fa, spesso, il primo attore, ma questo è un altro discorso. In giro ci sono molta cipria e poca seduzione. La cipria è cosa ben diversa dall’impalpabile velo della seduzione.

Cos’è il personaggio?
- Il personaggio è un lessema, non è una persona. Tuttavia è trattato come se fosse un organismo vivente.
- Perché?
- Perché i drammaturghi per primi, gli attori e i registi per secondi, gli appiccicano addosso sentimenti e psicologie.
- Tu come hai risolto il problema della creazione del personaggio?
- Con i piedi. Un giorno ho scoperto che potevo lavorare sul personaggio solo dopo aver stabilito se aveva o non aveva le scarpe e, se le portava, di che tipo erano. Pesanti, leggere, di cuoio, di stoffa? Ho capito che la sorgente del mio corpo erano i piedi. Una scoperta, apparentemente banale, che mi ha aiutato a risolvere un grande problema. Camminare in scena è una delle cose più difficili. Penso ai passi dell’attore nello spazio scenico come a passi di danza, carichi di ritmo e di energia. I piedi sono importanti per me come la maschera per l’attore della commedia dell’arte. Senza maschera il personaggio non c’è. Per me non c’è senza un insieme variegato di camminate opportunamente studiate, fatte e ri-fatte mille volte.

- Ti è capitato d’interpretare personaggi lontani dalla tua personalità?
- Due volte. La prima, facendo Francesco. Uno spettacolo essenziale. Primordiale. Parole, suoni, oggetti, spazialità dei corpi. Spazio scenico fatto di terra, due pietre, un po’ d’erba, dentro un rettangolo di mattoni. Una sorta di giardino zen, collocato al centro di disadorne chiese romaniche. Forte attività percettiva. Precisione assoluta nell’esecuzione. Durante lo spettacolo molte donne si voltavano verso le pareti per piangere o per pregare. E dopo, le suore francescane venivano a baciarmi le mani. Un’esperienza professionale che introdusse una sorta di rallentamento nel ritmo della mia vita quotidiana. Cambiò il mio modo di agire, di muovermi, di parlare.
- E la seconda volta ?
- Accadde con Gulliver di Broskjewicz. Spettacolo indimenticabile. Nel primo atto interpretavo Gulliver, il gigante. Il lillipuziano stava rinchiuso in una gabbietta di legno di trenta centimetri. Comunicava con i suoni e con la luce. Nel secondo atto invece facevo Gulliver, il nano. Il gigante non si vedeva. Si presupponeva che spiasse il nano dalla soffitta del teatro. L’uso appropriato di mezzi artistici mi ha consentito di superare la prova, se è vero che nella prima parte – senza protesi o tecnicismi - apparivo molto più grande di quello che sono realmente, e nella seconda parte – senza mutilazioni - apparivo molto piccolo di statura.
- E quali sono state le reazioni del pubblico?
- In situazioni di questo tipo lo spettatore, consapevole delle difficoltà dell’attore, è attratto dalla sua sfida, dalla posizione antitetica che si crea tra attore e personaggio, e prova un’illusione molto più cosciente. La tensione creata dall’antitesi aumenta l’interesse e l’attenzione verso l’attore. Nel fare dell’attore la componente sensuale gioca sempre un ruolo primario, ma in questo caso conta ancora di più, in misura direttamente proporzionale all’opposizione. Si raggiunge il massimo livello quando l’attore interpreta un personaggio di sesso opposto. Questo vale in teoria. In pratica sappiamo che una più sottile azione chimica decide la trasformazione: il modo in cui l’attore colma la distanza che lo separa dal personaggio, lo stile che adotta, quanto di tecnica e quanto di fisicità mette nella ricerca del risultato. E’ tutto questo a determinare, di volta in volta, il peso del suo fascino, il che impone un’attenzione particolare alla quantità/qualità del rapporto fra la tecnica e il temperamento dell’attore, ma anche (per dirla con Savarese) ”all’equilibrio precario fra lo studium e il punctum dell’effimero teatrale”.

- Il lavoro dell’attore può diventare alienante?
- Diventa alienante quando l’attore dipende dal regista, quando cerca nelle parole dicendo falsità, quando è costretto a compiere l’atto banale della ripetizione delle battute. In questi casi il piacere e la carica di credibilità diminuiscono. E diminuisce il fascino perché le forme nascono morte. Artioli e Bartoli dicono una cosa interessante: quando l’attore oppone “la cultura alla vita, il pensiero all’energia, la forma alla forza, il limite all’illimitato” lo spettacolo si vota “allo spirito della separazione, facendosi oggetto di un esproprio tanto più mistificante quanto fondato sulle parvenze della riappropriazione”. E Mango aggiunge che “l’atto del creare“ è un “atto divino”, complesso e meraviglioso, che la tecnica pura non riesce a determinare: lo svilisce piuttosto a gesto della ripetizione. Nel disvelarsi l’artista offre ciò che promette, trovando per sé il piacere sublime di farlo. Più si perde, più si ritrova. Più si ritrova, più compagni di strada (spettatori plaudenti) incontra. Non ha missioni o servizi pedagogici da svolgere. Non si “cala” nel personaggio, ma lo utilizza per affermare l’urgenza del proprio punto di vista. Se lo vuole, può saltare la mediazione personaggio e porsi come soggetto e oggetto della comunicazione attraverso la realizzazione di un’azione performativa, che si svolge in tempo reale e si fisicizza in un luogo che contribuisce a determinarla, con notevole accrescimento della quantità e della qualità del piacere. La performance d’attore sta cambiando la semiotica della produzione artistica e la semiotica della ricezione.

- Alla fine di ogni opera ti conosci un po’ di più?
- Forse mi conosco un po’ di più.
- E ti riconosci nell’opera?
- No, mi appare estranea.

- E se io fossi il tuo opposto che mi diresti?
- Mai opporsi al proprio opposto.
- Mi conosci?
- Non ti conosco.
- E cosa fai per conoscermi?
- Faccio quello che è possibile fare, ma è impossibile arrivare in fondo.
- Perché mai?
- Perché la vista esteriore guarda verso di te, mentre quella interiore è rivolta altrove.
- Allora m’ignori.
- Ignoro chi sei e come stai, perché non sono in grado di conoscerti. E ancora di più ignoro il mondo, perché ancora di meno posso conoscerlo.
- E cos’altro hai da dire al tuo opposto?
- Posso dire che esisti, che il mondo esiste, che le cose che ci stanno attorno esistono. Posso dirlo, ma non ne sono profondamente convinto.
- E delle cose invisibili cos’hai da dire?
- Dico che esistono. Tuttavia, se non conosco le cose che vedo, figuriamoci quelle che non vedo, che non posso ascoltare, che non posso toccare! Inoltre, se per dire le cose che vedo o che posso toccare, non mi servo delle parole perché le cose parlano da sole; per dire le cose che non vedo o che non posso toccare ancora di meno mi servo delle parole, perché le parole sono diventate mute. Bisogna spaccarle, colpendo la scorza a colpi di martello. L’unica cosa di cui posso parlarti è il pensiero del confine. In quel luogo sono nelle condizioni di conoscerti, ma solo in parte, e di conoscere in parte il mondo in cui viviamo.

Del resto, il mistero dell’uomo può essere solo accarezzato.