Ricordate la pubblicità che diceva Il teatro allunga la vita? La risposta dei blog fu immediata: “Allunga la vita a chi?”, “Grazie per aver chiuso quegli anziani signori in appetitose cornici di legno”, “Con tutto l’acrilico che gira, dove si trova più tanto bel velluto, soffice e muffoso?”, “Se questo teatro allunga la vita, era meglio morire da piccoli”, “Un uomo di spalle guarda dei ritratti, è la sua vita che si allunga? È la vita delle persone ritratte che è lunga? C’è un’ambiguità semantica, questo spot è fatto contro il teatro, immobilizza e nega il futuro”. Si tratta di una formula pubblicitaria più o meno felice, oppure di un grande simbolo? E’ una figura retorica o un progetto politico? Insomma, cosa si nasconde sotto l’ambiguità semantica?

Analizziamo le immagini. Sembra di stare in un museo. Luci diffuse. Calde. Musica di atmosfera, secondo tradizione. I ritratti di alcuni attori famosi sono incorniciati e collocati su cavalletti di legno. Si allude? C’è un accostamento tra teatro e museo? Beh, potrebbe essere una buona idea. La guerra tra teatro di tradizione (immobile) e teatro di ricerca (sprofondato nel post-moderno) è finita da qualche anno, siamo in piena normalizzazione, non c’è più contesa tra le bande armate che si sono spartite il mercato teatrale pubblico che sta in mano agli amici degli amici: potrebbe essere un’idea da prendere in considerazione. Da una parte i musei dello spettacolo di prosa - assieme a quelli dell’opera lirica -, e dall’altra parte una rete di spazi non tradizionali per quelle Compagnie (ce ne sono) che intendono affrontare con crudele determinazione la questione della teatralità del teatro, introdurre il teatro dalla parte del mondo, far entrare il teatro nella vita. Non è una buona idea? E allora, ditemi: che fare, mentre tutto si trasforma in tutto, mentre tutto si accumula in un tutto più grande e tutto tende a negare il valore della differenza? E’ all’emarginazione del teatro e all’implicita esaltazione dello spettacolo d’intrattenimento che allude la pubblicità ministeriale? Credo di sì. Quando il teatrino della politica sponsorizza l’elisir di lunga vita o semina speranza so che devo tremare. Se non tremare, temere. Ho capito: il teatro è lo spettacolo d’intrattenimento. E i soliti malpensati, quelli che, pur riconoscendone la legittimità, non praticano lo spettacolo d’intrattenimento? “O la fama o la fame”, risponde l’attore involontario con una battuta fulminante.

Nell’era delle grandi tragedie quotidiane non esiste più il teatro tragico e nel trionfo della vivacità satirica è scomparso anche quello comico. Regna la farsa. La tragedia della polis che, a distanza di poco tempo, diventa una farsa. Il ridicolo non è un eccesso, è la normalità dello spettacolo della vita che entra mimeticamente nello spettacolo dal vivo. Il troppo umano diventa disumano. E’ bello ciò che appare. E tra il bello e il disumano appare, un giorno, la pubblicità multimediale che insinua l’eliminazione del teatro, proprio nel momento in cui ne esalta la vita. L’hanno capito anche gli sciocchi che questo è il segnale di un approdo prospettico non rivelato, e – nonostante la menomazione -, lo hanno messo insieme ad altri indicatori di quantità e di qualità: le modalità di concessione dei contributi statali decurtati, la riforma tante volte annunciata e mai realizzata, il richiamo al mercato. Lo spettacolo dal vivo, si dice, deve salvarsi nel mercato, ma chi salverà lo spettacolo di prosa dal dirigismo del mercato? Chi lo salverà dalla rete di complicità, dalle rendite di posizione, dalla cultura del successo ad ogni costo? Chi lo salverà dalla tensione verso il pensiero unico e dal gancio dei vecchi modelli di riferimento?

Macché, sono tutte fantasie, fisime, manie di persecuzione. Sono deliri. Viviamo in un’epoca felice.

Italo Svevo pensava che “poteva restare felice quell’epoca solo finché durava lo sforzo di uscirne”, ma il Potere, invece di allungare lo sforzo a favore di tutti, sceglie di proclamare l’epoca felice nel convincimento che sia la felicità dei pochi a rendere felice tutti. Insomma ci troviamo di fronte ad una felicità epocale, la quale ci dice che siamo usciti dalla dittatura con la guerra di liberazione e con la carta costituzionale, ma che siamo entrati nella sfera seduttiva di una mascherina che ci sorride continuamente: si ammanta di buone maniere, semina speranze e fa benefica elargizione di buone notizie.

E poco cambia, se si passa dal teatro all’informazione. L’informazione non è mai neutra, perché è fatta da uomini che hanno i loro punti di vista, ma non per questo rappresenta un pericolo pubblico. E’ un pericolo per il Potere, ma questo è una delle sue ragioni di essere. Le regole deontologiche della necessità, della concretezza, della utilità sociale sono sufficienti a garantire la corretta argomentazione della notizia. Se si pensa a disciplinare la produzione e il consumo d’informazione o di spettacoli con una legge, è come se si volesse ingabbiare l’aria: si sa dove si comincia, ma non si sa dove si finisce.

Ciascuno al proprio posto. Nessuna invasione di campo. Quando la classe politica, invece di cambiare se stessa, pensa a cambiare i cittadini, dimostra di essere fuori posto e di non fare il lavoro che invece deve fare. Che ci dobbiamo inventare per vivere meglio? Nulla. Le cose da farsi sono tutte ovvie. Basterebbe un po’ di buona volontà. La prima è questa: ciascuno deve occupare il posto che gli è stato assegnato dalle vicende della vita e dimostrare di saper fare quello che deve fare.

L’epoca in cui viviamo, oltre ad essere felice, è labirintica. Il mondo entra in se stesso, afferma l’angustia della propria totalità, spinge la dispotica e contraddittoria economia di mercato verso la perpetuazione di se stessa. L’entropia esclude ogni possibilità di cercare (e di trovare) una uscita che non somigli a una entrata. E i giovani? Lasciamo andare le politiche giovanili. La retorica sui giovani è la sporcizia peggiore. Torniamo al teatro, cioè allo spettacolo d’intrattenimento che si vuole presentare come ricetta nazionale buona per tutte le tavole, per tutti i commensali e per tutte le oscillazioni dei loro gusti. Con questa scelta – che è la negazione del bisogno diffuso di nuovi sguardi, nuovi orizzonti, nuove politiche di progresso sociale -, si può essere certi che gli stereotipi e vizi capitali saranno salvi: si perpetueranno all’infinito. L’assoluto ideologico è un orrore. L’uomo, che ne è vittima, trasforma il gusto individuale in un marchio. L’uomo falso, diventa un falso uomo e il marchio non tranquillizza gli altri uomini. Di certo, non gli allunga la vita.

L’epoca in cui viviamo, oltre ad essere felice, è bizzarra. E’ felice perché è bizzarra o è bizzarra perché è felice? Ci sono – voglio dirlo chiaramente -, buone e cattive forme di spettacolo d’intrattenimento e ci sono buone e cattive forme di teatro. Non è ovviamente il genere a determinare la bizzarria, l’imprevedibilità e ancor meno la qualità delle proposte artistiche. E’ bizzarro invece che la critica non critichi il fallimento, quando c’è. Già, qual è il motivo?

La nostra epoca, oltre ad essere bizzarra, è complessa. Tempo addietro pensavo che il conflitto tra le opposte tifoserie (teatro di tradizione/teatro di ricerca, spettacolo/teatro, scrittura drammaturgica/ scrittura scenica) fosse un ostacolo alla crescita della polis dei valori condivisi. Ho cambiato idea. Il conflitto è il luogo della contesa. Valori opposti e contrari entrano in contatto e restano irriducibili: come tali non solo contribuiscono a tenere acceso il crogiuolo delle idee, delle esperienze, delle verifiche, della capitalizzazione dei risultati, ma producono un valore aggiunto di natura poetica, che è il mistero, la bellezza, forse. In tal senso ritengo auspicabile il riaccendersi del conflitto che si è spento, perché soltanto dalla competizione coraggiosa, dalla consapevolezza della critica che critica, dal confronto impavido e severo – scevro da ogni demonizzazione -, possa germogliare qualcosa di buono per l’intero sistema teatrale. Il fuoco della contesa non fa quindi saltare in aria il principio di libertà. Anzi, lo afferma, lo conferma in modo pieno e totale. E’ una garanzia di libertà. Una possibilità concreta per legare lo sviluppo al progresso. L’ipotesi, però, implica una condizione di praticità ovvia. Perché si riaccenda il conflitto è necessario che ci siano i contendenti, il teatro e lo spettacolo; meglio, i teatri e gli spettacoli. Sono contrario, si è capito, ai marchi dei predoni che hanno in mano teatri, circuiti, riviste, giornali e monete sonanti. Sono contrario alle bande degli intoccabili, non ai marchi di qualità degli spettacoli e dei teatri..

La nostra epoca, oltre ad essere felice, è ironica e imprevedibile. Coltivare il sorriso sulle labbra è certamente un buon metodo. Ci salva dalla vita? No, non basta. Nel poema La tragedia dell’uomo, di Imre Madach, Adamo, accompagnato da Mefistofele, compie un viaggio nel tempo e assiste alla rappresentazione di una serie di fatti tragici che gli fanno passare la voglia di vivere. Quando Eva gli comunica di essere in attesa di un figlio, Adamo abbandona l’idea del suicidio e accetta la vita come lotta. L’autore non semina evidentemente speranza e crede che solo l’esperienza possa cambiare, almeno in parte, l’uomo. Questo vale nella vita reale come nella finzione scenica. In quanto alla lotta, penso che siamo tutti allenati. Io ho dovuto lottare anche per amare. Una coppia di genitori erano contrari al mio matrimonio con la loro cara figliola. Il motivo? La religione. Loro erano ebrei, io cattolico, anche se agnostico e materialista. Grande teatro. Indimenticabile. Penso anche che sia capitato a tutti di dire, almeno una volta, “Basta, non ne posso più”: voglio dire di essersi offerti all’idea della morte come attori volontari, oppure di essere stati attraversati dal pensiero dell’assassinio. Secondo Jhon Donne, Cristo è stato un attore volontario. E anche Giuda: ritenne di essere indegno di vivere come uomo buono, restituì i trenta denari e s’impiccò. Io non lo farò. Ho deciso di vivere da uomo cattivo.