Dal mondo dell'accademia, spesso anche giustamente vituperata, giunge ai lettori appassionati di teatro un libro di grande valore della giovane ricercatrice Valentina Venturini, già caporedattore di <<Primafila>> e <<Inscena>>: si tratta di Raffaele Viviani. La compagnia, Napoli e l'Europa, che l'editore Bulzoni ha pubblicato a fine 2008. Se il vero teatro cammina su due gambe (scena e libri), e vive nel movimento parallelo e simultaneo dei due arti, voglio subito dirvi che il libro della Venturini ha un particolare fascino, mai raggiunto dagli altri studi, anche recenti, su “Rafele” Viviani, e cioè proprio quello di abitare uno spazio in cui entrano in rapporto la “materialità” del fare teatro vivianeo e la capacità della studiosa di illuminarne tutti i valori culturali, etici, umani, evidenziandone l'identità di origine (una Napoli fuori da stereotipi corrivi) e la sua collocazione anche nel contesto europeo.

Ne deriva che la lettura del volume può coinvolgere direttamente i “teatranti” e contemporaneamente gli studiosi, i cosiddetti “teatrologi”, ma anche il lettore appassionato e “motivato”, che leggerà il libro come un vivido, appassionato, affrescato racconto, una storia affascinante, di un'avventura teatrale unica nel contesto napoletano italiano europeo del Novecento. Questa energia rievocativa viene suffragata da una grande mole di documentazione che la Venturini ha saputo raccogliere e collazionare in anni di faticosa e fruttuosa ricerca: contratti, lettere, testimonianze, materiali iconografici, bibliografie, insomma non c'è tipologia documentale che la studiosa non abbia esplorato con precisione e lucidità. Cosicché il libro offre indirettamente, implicitamente, anche la ricostruzione credibile della vita teatrale napoletana della prima metà del Novecento, evitando il gusto epidermico della leggenda o di una mitografia popolare, o di una concezione aneddotica di fatti e persone; una folla di attori, cantanti, chansonniers, vedettes, viene rimessa in vita anche nei suoi legami col lavoro vivianeo, con accurata e consapevole conoscenza dei rapporti anche “materiali”, giuridici, professionali, artistici, che tra tali figure e Viviani vennero a intersecarsi. Ciò si evidenzia in passaggi decisivi del libro, dove la Venturini ci fa capire come il grande Viviani, a partire dal 1917, andò man mano costruendo su basi solide il “suo” teatro, il suo “genere”, il teatro-Viviani, cioè un “teatro d'arte” che seppe partire da una cultura “bassa” (il varietà, la macchietta) per giungere all'altezza della Prosa ufficiale, in cui si ritagliò un'identità precisa, una “diversità” nell'ambito dell'ufficialità culturale; un teatro in cui drammaturgia scritta, partitura musicale, versi per il canto, scenografie, “gesti” e fisicità e comportamenti scenici attoriali, raggiunsero altissimi valori, in un <<impasto>> di organica tessitura.
La coralità, l'affiatamento, la “verità” scenica, la precisione dovuta a prove instancabili, e la stessa insuperata “presenza” del “maestro”, connotarono, per un trentennio, il modo di far teatro di Viviani, condiviso con la sorella Luisella, e con un gruppo di “fedelissimi” attori-cantanti da lui educati, e spesso scelti direttamente dal mondo della vita, tra le vie e le piazze partenopee, piuttosto che da quei teatri in cui l'espressività artistica poteva essersi irrigidita in scontati clichès. Ma l'arte vivianea, come ben dimostra l'autrice, anche attraverso strumenti metodologici aggiornati, e conoscenze dirette del lavoro teatrale, dei suoi princìpi, dei suoi valori più nascosti, seppe, quasi inconsapevolmente, raggiungere risultati comparabili con quelli di altri maestri europei, che capirono la necessità di affrontare le modalità assolutamente nuove del mercato teatrale contemporaneo, senza sacrificare la ricerca artistica, ma semmai collocandola in dimensioni mai prima sperimentate (scuole, laboratori, innovazioni espressive, invenzione della regìa, organicità del rapporto attore-spettatore). Si pensi solo, ci suggerisce la studiosa, a come Viviani seppe, pur in un contesto pragmatico e commerciale d'impronta fondamentalmente ottocentesca (il capocomicato e la compagnia all'italiana), seppe andar oltre la primazia del prim'attore, “mattatore”, “grand'attore”, per costituire un'ensemble come organismo compiutamente armoniosamente interamente vivo artisticamente sulla scena, senza rigide distinzioni di parti, o gerarchie prestabilite; come daltronde richiedeva l'idea teatrale di Viviani, per la quale la presenza della musica, del canto, del “gesto”, richiedeva assolutamente proprio un lavoro di coordinamento armonioso di tutta la compagnia.

Le stesse vicende degli anni Quaranta, vengono illuminate dalla Venturini per poter mettere a fuoco le motivazioni di una parabola che inevitabilmente andava a scendere, fino al progetto irrealizzato dei Dieci comandamenti: ci si accorgerà come alcune motivazioni del tramonto vivianeo date per scontate, non reggono alla prova dei fatti: un esempio fra tutti il presupposto ostracismo del regime nei suoi confronti.
Strutturato in cinque capitoli (il secondo e quarto concepiti come intermezzi in cui la nostra autrice riporta dati documenti ricostruzioni storiografiche), il libro segue, specie nel primo terzo e quinto capitolo, la vicenda esemplare vivianea, dagli anni del suo passaggio dal Varietà alla Prosa (1910-1922), a quelli in cui trionfa la sua Compagnia d'Arte Nuova napoletana (1922-1925), fino al periodo 1926-1950, e alla sua discesa negli anni tremendi del secondo conflitto mondiale, e allo spettacolo “mancato” di I dieci comandamenti. In questi tre capitoli, che vengono a complemento arricchiti da due interviste (a Luciana Viviani e a Maria Viviani), da una vastissima bibliografia e da un funzionale ricco indice dei nomi e delle cose, la Venturini ricostruisce una esemplare vicenda artistica, culturale, umana, e ci offre, cari lettori di Dramma.it, numerosi spunti e orientamenti, per considerare Raffaele Viviani anche e ancora un “nostro” Maestro, e non solo per i suoi tanti meravigliosi testi che ci ha lasciato, dagli atti unici, quali 'O vico, Tuledo 'e notte, 'A musica d' 'e cecate, ai grandi intensi drammi quali 'O spusarizio, Circo equestre Sgueglia, 'O fatto 'e cronaca, 'E piscature.
L'esemplarità di Viviani, per concludere, può rivivificarsi in e per noi, nei modi di un rinnovamento autentico del “nostro” teatro che non può rinunciare alle sue specifiche piccole-grandi “tradizioni”.

TRE DOMANDE A VALENTINA VENTURINI

Perché questo tuo profondo incontro con Raffaele Viviani? Cosa ha significato per te Viviani, prima ancora di concepire il tuo importante libro?
Viviani è l’amore per il teatro, l’inscindibilità tra teatro e vita, la forza di un sogno in cui si crede a tal punto da trasformarlo in realtà. Casa e teatro, famiglia e teatro, vita e teatro: è questo che scorre in Viviani, passione, sacrificio, sogni e straordinaria professionalità.

L’ingente mole di documenti di varia tipologia che hai saputo ritrovare, in che modo ti ha permesso di ricostruire con grande perizia la “storia” del teatro-Viviani?
La ricerca su Viviani ha avuto origine nel 1999, da un progetto di tesi di dottorato volto a indagare e a ricostruire, a partire dai contratti dell’Archivio privato degli eredi Viviani, la storia della compagnia, o meglio delle sue compagnie. Attraversando però i documenti (contratti, recensioni, interviste, copioni, manifesti, locandine, fotografie, lettere, diari), respirando i racconti di quelle carte, pur andando nella direzione della compagnia, mi sono resa conto che la storia di quella formazione era inscindibile da quella del suo capocomico e impresario, da quella dell’uomo e dell’attore-autore; e che quindi quella storia non poteva essere ricostruita senza passare per quella di un complessivo “Teatro Viviani”, in funzione del quale, appunto, la compagnia fu pensata e realizzata. L’indagine diretta sulle fonti, molte delle quali mai esaminate prima, ha determinato la scoperta di un disegno nel quale tutte le tappe del teatro inventato da Viviani sono legate da un unico filo conduttore. Lavorando sulla compagnia e su Viviani ho capito che il sogno della compagnia, che poi diventa realtà, è una conseguenza e non il motore del suo teatro. Quello che era il suo vero, grande, sogno era dar vita a un suo teatro, sogno che non avrebbe potuto realizzare senza crearsi una sua compagnia. La compagnia, dunque, non come punto di partenza, ma come necessità imprescindibile, conditio sine qua non del suo teatro.

Dopo aver svolto e concluso la tua ricerca, che è anche un vivo e coinvolgente “racconto”, quale pensi che possa essere l’eredità di Viviani, quale il suo lascito per noi?
Il suo teatro, come amava ripetere ai figli («non vi lascio nulla, né case, né beni, però vi lascio un patrimonio inestimabile che è il mio teatro») e come dichiarava alla stampa a soli 36 anni: «studio, scrivo, provo, recito: non so come possa trovare tanta energia; ma, infine, la trovo. E fino a che questo sarà per me una necessità dello spirito, scriverò, proverò, reciterò. Mi sorregge il pensiero che il sogno di alcuni anni oggi è divenuto una sicura realtà. Il consenso del pubblico e della stampa tutta è per me uno sprone a far di più e di meglio; mi occupo oggi con attività ed amore del mio teatro perché credo che sarà l’unica cosa che rimarrà di me». Un teatro capace di parlare e coinvolgere oggi come ieri e come domani. Un teatro immortale, capace di trascinare e coinvolgere i suoi spettatori, portandoli in un altro universo. Un teatro fuori misura e fuori norma, un sapiente impasto di versi-prosa-musica-danza, che resterà nella memoria del teatro contemporaneo come un’eredità ancora da esplorare.