A pochi passi dalla meravigliosa avveniristica e “marinaresca” Ciudad de las artes y las ciencias, nella sede della Facoltà di Filologia, Traduzione e Comunicazione, dell'Università di Valencia, situata nell' alberato e variopinto e ampio viale intitolato allo scrittore Blasco Ibañez, si è svolto il 23 e 24 aprile scorso un partecipato e coinvolgente Convegno Internazionale dedicato all'opera di Dacia Maraini, “promoter” il prof. Juan Carlos de Miguel y Canuto, docente di Filologia e Letteratura Italiana. Gli interventi dei numerosi studiosi partecipanti, fra cui quello mio (“Parola e dialogo (monologo) nel teatro di Dacia Maraini”), hanno puntato l'attenzione sulla scrittura della nostra autrice più conosciuta e tradotta fuori dai confini patrii, sul suo teatro, sul significato della memoria nella sua opera e sulle tematiche legate al “femminismo”.
Che un Dipartimento universitario straniero (nella fattispecie quello di Filologia Francesa y Italiana) dedichi a una nostra scrittrice, che è anche drammaturga e donna-di-teatro, un Convegno molto ricco di presenze, compresa quella sempre sorridente mite ma energica di Dacia, col suo sguardo azzurro e libero, costituisce di per sè un importante attraente stimolante evento culturale. Hanno offerto le loro relazioni, fra gli altri, Giulio Ferroni, Franca Angelini, Niva Lorenzini, il già citato Juan Carlos de Miguel, Maria Consuelo De Frutos, Justo Serna, Giulia Colaizzi, Sonia Ravanelli, Antoni Tordera, Carlo Dilonardo, Vicente Forés. Tutti gli interventi verranno prossimamente raccolti negli Atti che pubblicherà l'editore Perrone, ai quali rinviamo i lettori interessati (già da ora si può andare via internet sul sito http://www.uv.es/migueljc/maraini). Voglio anche ricordare che, tra le iniziative collaterali al Convegno, si sono avute due essenziali ma efficaci mises en espace di testi di Dacia, a cura della Crit di Valencia (Companyia de recerca i innovacio teatral), diretta da Pep Sanchis, rispettivamente. Dialogo di una prostituta con un suo cliente, e Un treno, una notte, in lingua italiana, mentre, nelle due serate del convegno, in una splendida e funzionale sala teatro dell'Università, dallo stile architettonico primo novecentesco, si è rappresentato l' “oratorio” (così lo definisce la stessa autrice) Passi affrettati (brevi storie di otto esempi di donne perseguitate nel mondo), sia in castigliano che in valenciano-catalano, a cui ha assistito un foltissimo e emozionato pubblico, di varie nazionalità, essendo questo un evento che si sta ripetendo sia in Italia che all'estero, da diversi mesi, con il patrocinio di Amnesty International (www.passiaffrettati.it).

Da testimone partecipante voglio ora offrire ai lettori di dramma.it qualche spunto di riflessione che ora, “a botta fredda”, pur conservando nella memoria alcuni momenti fortemente emozionali e il sapore di alcuni intensi stati d'animo, possono aprire qualche orizzonte al nostro pensiero teatrale, anche in seguito al confronto e ai dialoghi avuti con la stessa Dacia, oltreché con molti dei partecipanti al Convegno, giovani studenti compresi. Evidentemente se dedico attenzione e forte interesse al teatro di Dacia è perché credo che la nostra drammaturga e scrittrice sia una vera donna-di-teatro, e a suo modo una “maestra”, come d'altra parte ha dimostrato il nostro più autorevole storico del teatro Ferdinando Taviani, nella sua laudatio per il conferimento della laurea honoris causa in Studi Teatrali da parte dell'università di L'Aquila nel 2007 (presente come postfazione intitolata Teatro e democrazia culturale, in D. Maraini, Per proteggerti meglio, figlia mia, Ianieri editore, Pescara 2008). Cosa mi\ci insegna Dacia Maraini? Direi innanzi tutto una capacità di rendere sempre necessario il lavoro teatrale, molto molto prima che esso venga riconosciuto, portato ai fasti (e nefasti) delle cronache “ufficiali”: teatro come contesto di relazioni umane e politiche nel senso più aperto e libero del termine. Per Dacia ieri era un teatro legato alle lotte femministe, oggi è un teatro di grande impegno civile, col quale realizzare un'azione educativa sociale didattica. E ancora un teatro scritto e realizzato anche e nonostante i mille ostacoli, la mancanza di fondi, il disinteresse delle “autorità”; un teatro che nel proprio ri-uso, come spiega Taviani, sa trovare sempre nuove ragioni per essere praticato.

Un teatro inteso, afferma Dacia, come “lusso”, ma, come tale, comunque necessario alla comunità, e da essa sempre sostenibile anche con risorse pubbliche, purché gestite meritocraticamente e in modo trasparente e giusto. Come non darle ragione quando sostiene che la scena teatrale è l'ultima “piazza” rimasta, dove incontrarsi, confrontarsi riflettere sul nostro essere cittadini? Unico “foro” in cui si può almeno gettari le basi per una nuova coscienza civile, intellettuale, culturale? Unico ambiente d'incontro fattuale, fisico, “materiale”, emozionale, affrancato dalle realtà virtuali super-ficiali massmediatiche? Certo, bisogna essere consapevoli che un artigianato ed un'arte “senza mercato” non possono più esercitare quell'egemonia che solo un secolo fa ancora gli competevano, ma, a mio parere, nell'infinito campo delle espressioni simboliche e artistiche, quella teatrale può “colorare” tutte le altre, determinarsi come matrice e fine ultimo della cultura, come arte che, sempre Taviani ce lo ricorda, non può non dirsi, appunto, arte, ma anche non può non dirsi vita. Ma, ancora, dovrebbe essere arte che sa autotrascendersi, per costituirsi come costellazione di valori, radicati nella persona, valori sociali educativi spirituali interiori; e radicati nelle persone che per prime la incarnano, gli attori e tutti i suoi autori a vario titolo. Più volte Dacia ha sottolineato la sua serietà e i suoi convincimenti nel praticare un po' tutte le funzioni necessarie al “fare teatro” (è il titolo dato alla raccolta delle sue pièces edita dalla Rizzoli nel 2000), meno quella dell'attrice per insuperata timidezza (ed è per questo, a parer mio, che in molti suoi personaggi femminili vi è una caratteristica che li rende personaggi-che-recitano, o personaggi che si trans-vestono, trans-mutano (come ha sostenuto Gerardo Guccini).

Un dinamismo in metafora viene spesso usato dalla Maraini per indicare un'altra ragione profonda del suo teatro, quando afferma che in esso si traccia un movimento in verticale, una verticalità (di contro all'orizzontalità del romanzo), che è interrogazione dell'uomo verso una probabile, discussa, creduta, negata, “entità” superiore. Siamo alle radici “religiose” (seppur laiche), del teatro occidentale: sono motivazioni di fondo, anzi, nel profondo di noi, tali da farci sostenere ogni fatica e sofferenza nel fare il “nostro” teatro, anche nel modo più “umile”, purché sia “vivo”. E appunto, la vita, la celebrazione della Realtà tutta, la danza e la musica della Vita, mi sembrano sottostare e sostenere il teatro e la drammaturgia di Dacia Maraini, i cui personaggi vogliono partecipare pienamente e liberamente e comunitariamente al piacere (sensuale), alla felicità (dell'anima), alla gioia (dello spirito) del Vivere.