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Ho iniziato la mia carriera di drammaturgo scrivendo in Italiano. Dopo i primi tentativi più o meno riusciti, ho capito il motivo per cui avevo iniziato a scrivere per il Teatro. Quello che stavo cercando era la verità dei personaggi e sentivo che l’Italiano non mi consentiva di ottenere fino in fondo ciò che volevo.  La cosa che forse mi ha da sempre più interessato, in una sorta di autoanalisi perenne, è capire da dove vengo. E le mie, le nostre radici, inevitabilmente, per storia  e cultura,  affondano quasi sempre in un humus contadino, semplice, istintivamente popolare. Non è un caso il desiderio umano della popolarità. Il piacere a molti. Il dialetto è un linguaggio popolare che piace a molti. Quante volte ci capita di sentire illustri personalità, che magari, nel corso di un intervista, quando desiderano mostrare la loro umanità, al di là della specifica competenza, ricorrono a una citazione in dialetto? Quanti “stranieri” tentano disperatamente di diventare romani! Volemose bene! Damose da fa’! Perfino Papa Giovanni Paolo II, in due frasi, provò il gusto e il bisogno di aderire a un linguaggio tanto umano. Umano perché popolare. Frasi e termini che, nella loro semplicità, possiedono la forza intrinseca di un approccio alla vita sereno, naturalmente auto ironico. E in quell’esternazione c’è il desiderio di piacere a molti. Di essere davvero popolare. Il dialetto unisce le persone, regala un senso d’appartenenza.  
E’ per questo che scrissi nel 1993 la mia prima commedia in romano, ambientata in un interno proletario della periferia della Capitale durante la II guerra mondiale. “Il cappello di carta” nasceva dall’esigenza personale di sperimentare le possibilità teatrali della lingua romana,  dalla mia  necessità di spettatore di assistere, se possibile, ad un suo uso diverso. Dalla noia ed in alcuni casi perfino dall’indignazione, di fronte ad un “ab-uso” volgare e scontato, di una lingua tanto amata. Dall’amore per il cinema degli anni d’oro,  per i grandi autori e interpreti romani. Uso il termine Lingua sicuramente in modo improprio, ma lo faccio di proposito, affinchè sia chiara l’importanza che annetto a questa scelta espressiva. Non invento niente: la lezione di Eduardo in questo senso è emblematica. Ma mentre le lingue/dialetto napoletana o siciliana o, ancora, toscana hanno ottenuto il sacrosanto sdoganamento ufficiale, grazie soprattutto alla perseveranza anche di importanti autori contemporanei come Ruccello, Moscato, Scaldati, Chiti,  la lingua/dialetto romana ancora lotta contro i severi pregiudizi degli addetti ai lavori.
Ma non ho timore d’affermare che la lingua/dialetto “romana” (da non confondersi con il vernacolo) possiede una forza espressiva e poetica teatrale assolute: la capacità di sintesi del romano è stupefacente, teatrale a tutto tondo.
L’uso di espressioni (e non di proverbi, si badi bene) come: “M’ha detto petalino!”, per testimoniare la propria sfortuna, o al contrario:”Te va l’acqua pè l’orto!”, per significare un momento particolarmente fortunato, non hanno forse la stessa raffinatezza o (magari superiore) capacità espressiva di nobili frasi idiomatiche anglosassoni tipo: “To be born with a silver spoon in the mouth” (Nascere con un cucchiaino d’argento in bocca)?
Non credo sia un caso la frequente adozione della lingua romana da parte di un autore come Pasolini, per dare voce alla sua poetica.
Nei miei testi tendo ad utilizzare un romano fruibile, infarcendolo qua e là di modi di dire, magari un po’ dimenticati ma di grande impatto narrativo. I miei dialoghi spesso  sono improntati alla destrutturazione del linguaggio stesso. Uso per esempio moltissimo i puntini di sospensione. E quando scrivo i punti di sospensione sto agendo di proposito  contro la “proprietà di linguaggio”. Quei punti di sospensione mi consentono di “cambiare discorso”, superando il formalismo dello “scrivere” e soprattutto del “parlare bene”. Quei punti di sospensione debbono essere riempiti da un’intenzione interpretativa e sono quindi linguaggio. Disarticolato, criptico, spesso incoerente. E’ una scelta la mia, passibile ovviamente di critiche, ma senza dubbio istintiva e passionale.
Ho scelto altresì di adottare, ignorando regole e ipotesi ortografiche, un tipo di scrittura che ne ricordasse molto la pronuncia stessa. Per cui la comunemente usata espressione verbale “ch’ho”, ad esempio, viene sostituita dal pronome “ciò”, grammaticalmente inaccettabile, ma foneticamente assai più efficace, e così via, sperando che l’istintivo sconcerto del purista, sia stemperato da una piacevole lettura.
Ultimamente ho rivisto il capolavoro di Comencini, “Tutti a casa”. In uno dei tanti geniali momenti interpretativi del “primo” Alberto Sordi, il superbo attore romano fa una iniezione all’amico. A quest’ultimo che si lamenta per il dolore,   si giustifica dicendo: “E tu indurisci ‘a canappa!” Dove canappa sta per gluteo. Non conosco, né mi interessa ricercare la derivazione etimologica del termine, ma a me, spettatore mediamente attento dell’anno di grazia 2013, una frase come quella, detta benissimo da un romano misurato, continua a deliziare l’animo. Probabilmente una parola mutuata da qualche dialetto del nord, ma che aderisce perfettamente alla cultura di una Roma cosmopolita e al tempo stesso opportunista. Una Roma che fa suoi termini e novità culturali che ritiene interessanti. Un romano moderno che già nei primi del novecento inizia ad operare una trasformazione straordinaria, per poi divenire lingua (e non solo cinematografica) nazionale. Ma quella sopra accennata è una società in via d’estinzione. Il cinismo romano raccontato in cinema in “Una vita difficile”, “C’eravamo tanto amati”, possedeva comunque in sé la sana dose d’ingenuità e consentiva a noi pubblico, dopo l’istintiva riprovazione nei confronti del Gassman, genero del palazzinaro, o del Sordi, venduto al “nemico”, una possibilità d’identificazione con il personaggio. “Forse anch’io in una simile circostanza…”. E la lingua, il linguaggio romano serviva a rendere più umani arroganze e tradimenti. Il cinismo d’oggi è invece un cinismo a tutto tondo, che può sì ancora strappare una risata, ma risulta comunque implacabile, senza speranza. Non può che riflettere i tempi che viviamo. E come poteva non subire effetti il linguaggio? Ed anche la lingua romana non poteva non accusare il colpo,  assumendo una durezza sconosciuta, esaltando, invece che le sue straordinarie capacità poetiche e ironiche, la sua inarrivabile volgarità intrinseca, mutuando infine dall’evoluzione-involuzione della società quella distanza che ci rende tutti un poco più soli.
Quello usato per esempio oggi giorno dai ragazzi è un romano ancora più sintetico, che va proprio nella direzione del cinismo a tutto tondo, ma non per questo difetta in efficacia. Ad esempio una frase sentita pochi giorni fa, che è davvero un sunto di sintesi e spietatezza, rivolta da una ragazza al suo ragazzo che le stava sussurrando frasi forse un po’ troppo smielate: “Ahò, me stai a  fa’ venì er diabete!” Ma ce n’è una  in particolare che merita, secondo me, davvero la nostra attenzione.  Si usa fra i ragazzi per dire: perché mi guardi male? Ed è: “ Perché me stai a imbruttì?”  Ed è vero. Verissimo. Un’intuizione straordinaria:  Chi ti guarda male ti fa del male. Ti mette di cattivo umore. Ti imbruttisce per l’appunto. Beh, insomma, niente male direi. Jim Morrison diceva: “Sorridi sempre, anche se è un sorriso triste, perché più triste di un sorriso triste c'è la tristezza di non saper sorridere.” Jim Morrison, se fosse ancora vivo, sicuramente ci avrebbe scritto una canzone  sull’Imbruttimento. 
Tentare di scrivere un Teatro intelligentemente popolare. Provare a restituire, nei limiti delle mie possibilità, la giusta dignità teatrale a una lingua troppo spesso mortificata. Creare un repertorio di teatro romano che possa essere goduto dalla più ampia delle platee. Questo è senza dubbio uno dei miei obiettivi d’autore. Ma  la più grande soddisfazione che questo mestiere mi dona è vedere la gente lavorare. Quando sto dietro “le quinte” del palcoscenico e vedo entrare i Vigili del fuoco, oppure i macchinisti che si apprestano al cambio scena e la sarta che aspetta l’uscita dell’attrice per il cambio d’abito…beh, provo un senso d’orgoglio. Pensare che quelle parole scritte mesi o anni prima al tavolo della cucina diano lavoro a tanta gente…questa è senz’altro la mia più grande gratificazione.

Gianni Clementi

Nato  Roma il 10.6.1956. Studi classici. Inizia ad occuparsi di scrittura applicata allo spettacolo alla fine degli anni ’80. Fra i suoi testi teatrali messi in scena in Italia e all’estero: “Maligne Congiunture” messo in scena dal Teatro Stabile di Calabria per la regia di Piero Maccarinelli, “Il Cappello di carta”, prodotto dal Piccoletto di  Ettore Scola, con la regia di Nora Venturini, “Una volta nella vita”, in versione francese, presso il “Theatricul” di Ginevra, a cura della compagnia “Les Troglodytes, “La Vecchia Singer” per la regia di Bruno Maccallini, in Spagna il testo  “Maligne congiunture” tradotto con il titolo di “Vis a vis”, nella doppia versione castellana e valenciana, per la regia di Salva Bolta, “Alcazar” per la regia di Stefano Messina. Vince la IX edizione del premio “Enrico Maria Salerno”, con il testo “La tattica del gatto”, che viene messo in scena a Graz (Austria), in lingua tedesca, presso il Theater im keller , in quanto vincitore del premio internazionale “Vicini sconosciuti” nell’ambito di Graz 2003-Capitale europea della cultura. Vince nel 2003 il premio Fondi La Pastora, con la commedia “La Spallata”,  E’ uno degli autori di “Serata d’onore” di Gigi Proietti. A Gennaio 2006 il Theater Im Keller di Graz ha messo in scena in tedesco “La vecchia Singer” (“Die alte Singer”). A ottobre 2006, il suo testo “Une fois dans la vie” è andato in scena a Parigi presso il Teatro Proscenium. Nelle stagioni 2005/06 e 2006/07 ha messo in scena  come autore e regista  “Calcoli”, prodotto dal Piccoletto di  Ettore Scola, già tradotto in francese. Vince, ad aprile 2007, la I Edizione del Premio nazionale SIAE-ETI-AGIS, con il testo  “L’Ebreo”.Ad Agosto 2007 il suo testo “La Estrategia del gato”, per la regia di Claudio Rodriguez, rappresenta l’Italia, insieme a un testo  di S. Scimone, al VII Festival de Dramaturgia Europea Contemporanea di Santiago del Cile. A Ottobre 2007 , per la rassegna “Connections” , Teatro Litta di Milano, 4 Licei Milanesi mettono in scena  il testo “Le Belle Notti”, scritto appositamente. Lo stesso testo a  maggio 2008 viene messo in scena a Newcastle in Inghilterra.  Nella stagione  2008/09 vanno in scena in vari teatri di Roma e in tournée: “Ben Hur”, “Sugo Finto”,  “La Serva”, “Due soli al comando”. Per la stagione 2009/2010  sono andati in scena “L’Ebreo”, con Ornella Muti  e la regia di E.M. Lamanna, la stessa commedia, con il titolo “Roma 1956”, va in scena in valenciano a Valencia, “Per fortuna è una notte di luna”,   per la Compagnia Attori e Tecnici. Nella stagione 2010/2011 hanno debuttato: “La spallata”, regia di Roberto Valerio, “Ma che bell’Ikea”, regia dell’autore, “Ladro di razza”, regia di Stefano Reali, e una nuova produzione de “Il cappello di carta”, regia di Antonello Avallone. A dicembre 2011 è andata in scena a Mosca una mise en espace de “La tattica del gatto”, in lingua russa. Nella stagione 2011/2012, oltre alle tournèe in Italia di “Grisù, Giuseppe e Maria”, “Ben Hur”, “Sugo finto” e “Una volta nella vita”,  hanno debuttato due nuovi testi: “L’ultimo volo” e “Nemici come primi”.
Per la Stagione 2012/2013 sono in programma gli inediti “Finchè vita non ci separi”, “Fausto e gli sciacalli”, “Barberia”, “Donnacce” “Per questo mi chiamo Giovanni”. Il Teatro Brancati di Catania produce una versione in lingua siciliana de “Il cappello di carta” ed il Teatro Litta, una versione milanese de “Le belle notti”. In turnè in Italia “Una volta nella vita”, “Ma che bell’Ikea” “Grisù Giuseppe e Maria” e “ Ben Hur”
Ad Aprile 2013 “Una volta nella vita” è andato in scena in tedesco a Graz (Austria) nel teatro Im Keller e “ l’Ebreo” in greco ad Atene nel Teatro Altera Pars.
Il 1° Maggio 2013 è uscito nei cinema italiani il Film “Benùr, un gladiatore in affitto” sceneggiato dall’autore e tratto dalla sua commedia teatrale “Ben Hur”.
Ad agosto 2013 gli viene assegnato a Volterra  il premio alla drammaturgia “Giovanni Villifranchi – Ombra della sera”.
Nella stagione teatrale 2013 /14 hanno debuttato in Italia i nuovi testi : “ Lo Sfascio”, “Colpo basso”, “Il tempo delle mele cotte” e le nuove produzioni di  “Ladro di Razza” e “La spallata”, e la ripresa in turnè di  “Barberia”, “Grisù, Giuseppe e Maria”, “Fausto e gli sciacalli”.
Vari  suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, valenciano, tedesco, francese, greco, inglese, russo, slovacco.