Pin It

In vista di una riedizione del mio ormai vecchio studio Lo scrivano, gli scarrozzanti, i templi. Giovanni Testori e il teatro, pubblicato da Bulzoni nel 1997, sento molto profondamente il desiderio di incontrare nuovamente quello che considero il nostro più importante drammaturgo di fine Novecento, nonché decisivo esperto d’arte e critico, prosatore e poeta. Ma come sappiamo la sua esistenza si è chiusa nel 1993, per cui mi è possibile solamente instaurare un dialogo con lui morto, facendolo rivivere in una mia scena mentale, che tenterò di vivificare con energia interiore, con immaginazione rispettosa e con una ancor viva memoria della sua persona e della sua parola, del suo sorriso mite e forte, del suo sguardo severo e amoroso, dei suoi occhi color del cielo. D’altra parte cosa di più testoriano che dialogare coi “morti”, cosa di più vicino a lui che sulla scena tante volte ha voluto far rivivere e risorgere i morti?
Aggiungo, inoltre che il desiderio di “conversare” con Gianni Testori mi si è acuito più che dal teatro “visto”, da quello letto, in particolare mi riferisco al recente utilissimo volume curato da Antonio Attisani e Mario Biagini, Testimonianze e riflessioni sull’arte come veicolo (Roma, Bulzoni, 2008). E al bellissimo e coinvolgente libro ancora più fresco di stampa di Franco Ruffini, Craig, Grotowski, Artaud. Teatro in stato d’invenzione (Roma-Bari, Laterza, 2009). Infine come una bussola che orienta, o una costellazione del cielo, anche le riflessioni che sgorgano in me dal pensiero del grande saggio, filosofo, teologo, indocatalano Raimon Panikkar, mi hanno suggerito un senso, una direzione fascinosa ed autentica nell’immaginare l’incontro e l’intervista con Gianni Testori.

D. A sedici anni dalla sua scomparsa fisica, cosa crede di aver lasciato di vivo nella cultura italiana?
R. Se intende per “vivo” qualcosa che resista nelle mode, nelle convenzioni, negli ambienti che fanno tendenza, credo quasi nulla. Se intende qualcosa che ancora resiste alle mode, alle convenzioni, agli ambienti predominanti, spero che della mia vita e della mia attività artistica e culturale, qualcosa si sia sparso, che accenda tutt’ora qualche minimo segnale di luce nella coscienza culturale italiana.
D. Lei crede che un artista, o un intellettuale, o un polemista, possa ancora al tempo d’oggi essere, magari in posizione minoritaria, un maitre à penser?
R. Più che essere stato un maestro, direi di aver sempre e soprattutto tentato di essere tutto me stesso, in ogni direzione del mio impegno, nella speranza che la mia vita non lasciasse dei buchi vuoti, nella trama della realtà e del mondo. Io credo che ognuno di noi deve capire, come nella parabola evangelica dei talenti, come deve vivere una vita autentica, affinché, appunto, non lasci una lacuna che nessun altro al nostro posto può riempire. Naturalmente non so se ci sia riuscito pienamente.
D. Io credo che siano fondamentali, oltre l’autenticità, anche l’intensità, e la “qualità”, per così dire del nostro vivere e agire.
R. Oh, si, certamente! E’ quella che la lingua inglese definisce awareness, una sorta di autoconsapevolezza del sé che ci sprofonda, ci fa esercitare appunto profonde energie spirituali, extraordinarie, che sono in un tempo non-tempo, così intenso da fondere il momento cronologico, il kairòs, e l’infinità temporale, l’eternità. Si, mi è accaduto spesso, amando, soprattutto, sia le persone che le grandi opere, dai quadri, ai dipinti, ai testi scritti. Ciò l’ho vissuto anche stando sulla scena, in particolare quando portammo in giro per i teatri d’Italia e anche in luoghi non teatrali, io e Branciaroli, In exitu: molto spesso nelle decine di repliche effettuate, per me fu proprio un’uscita da me stesso, per con-fondermi con Franco Branciaroli, e con molti spettatori, fu un andare oltre me stesso, uno stare in un fra, in uno stato di relazionalità assoluta che annulla il dualismo tra colui che agisce sulla scena e colui che assiste chi agisce; è quanto dovrebbe sempre accadere anche nella vita, non solo in situazione simbolica: dovremmo sempre considerare la nostra radicale condizione di relazionalità, il vivere appunto in un fra, proprio come in un rapporto d’amore, in cui conta stabilire una corrente, un flusso, un tropismo fra amanti. E lì, nello spazio scenico, guardi, che non si capisce più qual è il confine tra azione scenica e vita, tra parola scritta, detta, recitata, e parola-parola, parola vissuta. Ma, sa, non è per nulla facile spiegare e trasmettere questi stati di coscienza, così intensi, una qualità di vita, come dice lei, assoluta, sciolta dalle mille incombenze del quotidiano, da obblighi, convenzioni che ci opprimono. Un conto è il Logos, il pensiero, la parola, un altro conto è la Carne, cioè l’esperienza fisica, emozionale, biologica, il Mito di noi a noi stessi, che ci costruiamo a seconda della nostra cultura e dell’esistenza in cui siamo immersi.
D. Forse è l’intuizione poetica a esprimere, avvicinandosi davvero, certi stati d’animo, certe esperienze anche spirituali.
R. Si, l’intuizione poetica è quello che ho cercato di scavare nella mia scrittura, sia drammaturgica, sia letteraria, sia critica. A volte l’ho definito, “milanesamente”, un magun, un nodo che ti stringe nei precordi e che devi sciogliere scrivendolo, dicendolo, urlandolo, Ma non basta, per me!
D. Immagino che si riferisca all’intuizione, ad un’esperienza “ulteriore”, definibile come religiosa!
R. Si, certo, la chiamerei l’esperienza “cristica”, perché, l’ho detto e scritto in molte sedi, tramite Cristo, si intende il Cristo della fede, la parola si è fatta carne, si è incarnata nella storia per compiere davvero una rivoluzione cosmica, che deve divenire per gli uomini anche una insurrezione-resurrezione, un ripristino nella libertà della giustizia e della carità: un vuoto in tal senso per un cristiano è il peccato, come ha insegnato Paolo di Tarso.
D. Mi pare, senza dubbio, che questo sia il “fuoco” di tutte le sue opere scritte; mi viene da chiederle : per i non-credenti, per gli agnostici, il suo teatro che valore può assumere; e così pure la sua poesia, tipo Ossa mea, o la sua prosa, come Gli angeli dello sterminio?
R. Ma io non ho scritto né per i credenti, i non-credenti, o gli agnostici; ho scritto innanzi tutto per me, e poi per quegli amici che mi capivano, ho solo cercato di toccare e abbracciare temi fondamentali, direi antropologicamente fondamentali; così vale per le mie opere che trasferiscono certi fondamenti di alcuni mythoi al tempo della contemporaneità: si tratta di Edipo, di Oreste, di Elettra, di Amleto, di Faust, di Erodiade, di Maria madre di Gesù, , e così via. Si trattò per me di calare nella mia concreta realtà personale, le mie origini etnoantropologiche, quei personaggi e i loro strazi, i loro magoni, le loro rivolte, i loro amori, la loro libertà di amare; eppoi, essendo un occidentale, ho ripercorso secoli e secoli di tradizioni religiose, a partire dalla nostra, che è di popolo, di poveri cristi, di classi subalterne, fino agli operai, ai paria della società, i drogati, i folli, tutti coloro che oggi, come si suol dire, sono out, fuori da ogni potere.
D. E’ per tali ragioni che lei ha lasciato una sua frase “testamentaria” quando disse che si salva chi sa amare fino in fondo la Realtà tutta, la Creazione, in tutti i suoi aspetti?
R. Certamente: bisogna abbracciarla tutta la Realtà, nei suoi vari livelli: fisici, sensoriali, sentimentali, intuitivi, spirituali, divini, sapendo che la realtà, la creazione sono in continuo divenire, e noi dobbiamo sempre cooperare a questo continuo e infinito farsi, dobbiamo farci parte di questo tessuto universale; dobbiamo “respirare” il soffio cosmico e divino che alita sulle nostre vite, per il tempo-spazio esistenziale che ci è dato di costruire, sul quale intessere il nostro vissuto.
D. Ed è per questo che lei insiste sulla parola che va oltre la letteratura, quasi un artaudiano “non attardarsi sulle forme”, ma “significare” nel fuoco estremo del vivere, nel collocarsi, appunto, nel profondo della Realtà, e non sulla superficie di piccole, immediate realtà fenomeniche.
R. Ho sentito, ho capito, che dovevo fregarmene delle forme; che la parola scritta lo doveva essere in modo che, detta, proferita, recitata, profetizzata, esplodesse e spaccasse i significati standardizzati, i nodi ideologici imperanti, resi tabù, i paradigmi di una lettura unicamente tecnologico-scientifica della realtà, e quindi unidimensionale, univoca, parziale, estranea alla pluridimensionalità della Vita, alla sua molteplice ricchezza.
D. E questa sua parola urlata, franta, sofferta, “sacramentale”, e ritualizzata, ha finito per identificarsi col suo teatro!
R. Si, così è stato: perché la carne si rifacesse parola, nel respiro dei “miei” attori (da Franco Parenti a Franco Branciaroli, da Adriana Innocenti a Sandro Lombardi, da Andrea Soffiantini agli allora giovani attori di Extramondo, e tanti altri); nel loro pensiero, nel loro corpo-mente, nell’anima, nell’intelletto; e nella loro voce proferita in pubblico; ciò che ho scritto ho sperato e spero sempre, in un sentimento davvero estremo, che risuoni nella persòna che ciascun spettatore è. La parola va amata, e allora sempre diviene anche carne, esistenza, come dicevamo awareness, e poi canto, in-canto, giuramento, sacramento, e allora porterà il teatro oltre le sue “forme”, tra la scena e la vita, insomma, quella Vita che tutti cerchiamo di realizzare in pienezza, senza alcun fine che contemplarla, alla fine. E’ quello che ora lascio di più mio: pienamente e definitivamente fare esperienza della contemplazione della Vita. Con ciò non rinnego nulla della mia esistenza, nemmeno la mia sofferta, ma a volte così esaltante condizione di omosessuale.
D. Un’ultima domanda: crede che nel suo teatro vi sia anche una condizione del tutto utopica?
R. Penso di si, e lo ha capito, naturaliter, Franco Branciaroli: la mia utopia teatrale consiste nel far sì che ogni azione scenica sia ritualmente irripetibile, far si che ogni spettacolo sia un unicum, ma chi e come potrebbe vivere il suo lavoro sulla scena per un’unica rappresentazione, per un solo “debutto”, usando il gergo corrente? Lei capisce che questo non si può fare, per cui la butto lì questa mia utopia teatrale, come provocazione, come sfida, come un orizzonte che si vede di lontano ma che non si potrà poi mai raggiungere.