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Un quadrato di polvere segnato da molte paia di scarpe, ricordo di viaggi e percorsi forse mai iniziati o forse prematuramente estinti e senza coraggio, al centro due figure abbandonate sotto una fisarmonica che lentamente suona mentre i due sembrano annunciarsi reciprocamente un abbandono che è anche

una partenza/inizio di qualcosa. Così si apre la drammaturgia in danza, ideata, messa in scena ed interpretata da Michela Lucenti, penultimo evento visto al Festival Fuori Luogo di La Spezia, mercoledì 23 e giovedì 24 aprile negli spazi del Dialma Ruggero.
E il viaggio ha inizio, un viaggio negli spazi della nostra più essenziale sensibilità cui la coreografia intensa della Lucenti dà tempi e costruisce spazi ed anfratti che il suo corpo e la sua danza, fisica ed insieme affettiva e metafisica, continuamente forzano alla ricerca di una essenzialità dentro ed oltre la tecnica, dentro e oltre la razionalità.
Una performance costruita sull'instabile, ma quasi perfetto, equilibrio tra le canzoni dal vivo di Luca Andriolo, bellissime, e i ritmi talora dissonanti della danza della Lucenti, equilibri e dissonanze che si aprono agli spazi della parola poetica od epica che sia, parola che narra di un esistenza in continua tensione tra sorpresa e delusione, tra rabbia e finale gratitudine che tutto interpreta ed elabora, dal pane donato al dolore ingiustamente subito.
La Lucenti, con il ritmico scoprire e riscoprire, nel movimento coreografico, il suo corpo esile ma fortissimo, sembra riscrivere la sua storia che è una storia comune, una narrazione essenziale delle relazioni esistenziali, una narrazione di tutti noi. Con il suo zainetto pieno di sorprese segna così e supera confini e tappe verso una fine che è un riassunto coerente e grato.
È uno spettacolo pieno di suggestioni e corrispondenze, coerentemente integrato nei suoi diversi piani espressivi, dalla danza alla musica e alla poesia, capace di incorporare, forse inconsapevolmente, analogie inaspettate e sorprendenti.
Dentro tutto questo, a mio parere, scopriamo una moderna Giovanna D'arco, tra battaglie e martirio entrambi splendidamente vittoriosi, simbolo e metafora di un percorso femminile, ma non solo, di liberazione e consapevolezza, non chiuso in sé stesso ma votato, talora inesplicabilmente, al dono reciproco.
E la vediamo nel volto di Renèe Falconetti e nel suo corpo del pari esile ma invincibile, capace di trasformare, come qui in scena, il fumo e le fiamme del rogo in fiori rosso vivo e la sconfitta di un attimo nella vittoria di sempre. Di questo in fondo è grata la danzatrice-attrice.
Una Santa Giovanna cui solo la sofferente e sanguinante sensibilità di un Antonin Artaud è in grado di dare una qualche ragione e consapevolezza, di farla uscire verso gli altri.
Ecco perché ad accompagnare questa drammaturgia sembrano adatte e coerentemente efficaci queste parole, proprio di Artaud, sulla crudeltà e dunque sul teatro: “Conosco uno stato al di fuori dello spirito, della coscienza dell'essere, dove non ci sono più né parole né lettere, ma dove si entra attraverso urla e colpi. E a uscirne non sono più suoni o significati, più nessuna parola ma CORPI.”
Michela Lucenti riesce qui, infatti, ad elaborare ed interpretare movimenti coreografici che nella loro essenzialità tendono a trasformarne i segni in elementi di un discorso complesso che va verso la parola come stigma diretto del corpo, mentre questo si crea il suo spazio ed il suo tempo/ritmo nel mondo, ed in ciò dimostra una crescita ininterrotta ed una maturità ormai consapevole.
Bravo anche, come già detto, Luca Andriolo, musicista raffinato e poliedrico che amalgama tecnica e sensibilità interpretativa. I testi di Silvia Corsi alternano con efficacia toni e sintassi basse e alte. Produzione di Balletto Civile, la compagnia ormai affermata diretta dalla stessa Lucenti, con il sostegno della Fondazione Teatro Due, si giova della collaborazione tecnica di Maurizio Camilli.
Un bel successo, in questa prima nazionale, che potrà ripetersi e anche irrobustirsi.