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L’origine del mondo - ritratto di un interno  spettacolo in 3 quadri scritto e diretto da Lucia Calamaro con Daria Deflorian, Federica Santoro e Daniela Piperno

Recensione di Martina Di Gregorio

Quante persone trascorrono la loro vita cercando di trovare un equilibrio interiore, lottando contro una costante solitudine cronica, che sembra non abbandonarle mai, senza godersi i singoli momenti di gioia, perché troppo estranei dalla realtà? È questa la riflessione proposta nella trilogia (compatta) di Lucia Calamaro, drammaturga e regista affermata nel panorama contemporaneo. Nell’Origine del mondo-Ritratto di un interno: dramma esistenziale, di un nucleo famigliare al femminile, composto da madre (Daria Deflorian), figlia (Federica Santoro) e nonna (Daniela Piperno), quest’ultima presente solo nel secondo atto, la protagonista melanconica è la madre. La figlia ha un duplice ruolo, in quanto è anche una sorta di psicanalista e alter ego di Daria; questo gioco del doppio viene sottolineato nel primo atto con un trucco/maschera nel viso di Federica, una sorta di escamotage per creare un velo di mistero, per evidenziare la non singolare personalità del personaggio e creare degli interrogativi. La pièce mostra un rovesciamento (filosoficamente) semantico: L’oggetto è elemento vivo.  Il frigorifero pieno di cibo (e non solo) da cui fuoriesce la luce che illumina il buio del palco all’inizio dello spettacolo, una lavatrice con i panni che girano all’interno e tutti i rumori del lavaggio, l’acqua che scorre dal lavatoio, sono tutti elementi attivi. Gli oggetti rappresentano il reale, ciò che resta in una società costituita da pensieri effimeri, distratti, inutili. Essi danno senso e prevalgono sui lunghi monologhi interiori e non, dei personaggi inappagati che cercano di trovare consolazione attraverso il cibo, e tramite la cultura in tutte le sue sfaccettature, dalla pittura alla bibbia, alla psicoanalisi. Emerge una mancanza di comunicazione totale tra i diversi personaggi (madre-figlia, nonna-figlia, dottoressa-paziente) soprattutto tra Daria e la dottoressa/Federica, che parlano con loro stesse al posto di dialogare l’una con l’altra  e per contrasto,  c’è una relazione intima tra corpi di carne ed oggetti vivi.
La durata dello spettacolo è di 3 h, inoltre nella sala di Cascina non vi è sipario, per cui il pubblico è costretto ad abbandonare la sala durante gli intervalli. Interessante il gioco di luci, sfondo bianco nel primo atto, giallo nel secondo e blu nell’ultimo. Vi è una prevalenza di colori freddi e un armadio (presente in scena nel II e III atto) pieno di abiti dai toni pallidi, un po’ spenti, come gli indumenti che indossano le attrici: vestiti e impermeabili color panna e pigiama a righe grigio per la figlia. Nell’ultima scena il blu dello sfondo  diventa lilla mentre un riflettore giallo è puntato sul lavatoio, dove si trovano Daria e Federica ormai grande, che va all’università e racconta alla madre dell’esame di filosofia. Questa madre, che durante tutto lo spettacolo si mostra fredda, per niente affettuosa, alla fine domanda alla figlia se ha bisogno di soldi, ma lo fa non tanto come un gesto di generosità e amore, ma come una dimostrazione (ancora una volta) di egoismo personale, come a dire: << ma che vuoi ancora, che ti serve stavolta?>>. Il pubblico sembra aver gradito molto, forse si è avvertita un po’ di stanchezza verso la fine, magari per la lunga durata e per i temi profondi trattati.

Recensione di Valentina Volterrani

Ritratto di un interno, ritratto di un “dentro” che va oltre le quattro mura domestiche.
Spettacolo diviso in tre atti: Donna melanconica al frigorifero, Certe domeniche in pigiama e Il silenzio dell'analista. Al termine di ciascuno il pubblico lascia la sala per rientrare quando la scena successiva sarà ri-allestita trovando sempre le attrici ad attenderli.
Accomunati tutti e tre dalla modalità di assenza dentro casa, L'Origine del mondo scritto e diretto da Lucia Calamaro, mette in luce, tramite dialoghi che crescono di significato e potenza proprio grazie alla fluidità nella distanza, problematiche familiari e problemi di comunicazione tra l'io e gli altri. Due attrici madre-figlia “abitano” la scena-casa, la terza, la nonna si inserisce nel secondo atto ma rimane una figura esterna, mentre le prime due sono un “mah rappresentativo”  per le caratteristiche del personaggio che interpretano, lei, Daniela Piperno tenta di ristabilire attraverso una comicità ironica ma ponderata, un senso di realtà, cerca di salvarle dal loro universo di disordine mentale e chiusura verso il mondo esterno. Grazie all'interpretazione di Daria Deflorian nel ruolo della madre, Federica Santoro figlia-analista e Daniela Piperno nel ruolo di nonna moderna, si assiste ad una rappresentazione in cui il ruolo recitativo dell'attore è il perno fondamentale per cercare di capire non solo cosa sta accadendo sul palco ma anche le dinamiche di una vita interiore che ci portiamo dentro e che spesso non ascoltiamo. Fare senza pensare, sapere senza pensare.
Quando il pubblico entra in sala il palco è semi-buio, si ha come l'impressione che le due donne sul palco, nella penombra, siano li ad aspettarci da tempo, ferme, statiche. Tutto il primo atto è dominato dall'inconsistenza: dialoghi continui e sovrapposti tra madre-figlia, un frigo aperto in scena e pieno che inizialmente è l'unica fonte di luce in quel semi-buio, la roba da mangiare all'interno che non sazia, sta lì dentro al frigo senza sapere il motivo. Con il cambio di luci, dalla penombra si passerà ad un biancore generale, la credenza bianca trasportata al centro riempirà la scena senza mai togliere spazio alle attrici, i volti truccati in modo spettrale e non naturale accentueranno quel senso di malessere e di finta esistenza. Federica Santoro, che da figlia diventa medico della madre, passa da un personaggio all'altro senza mutamenti o interruzioni di fluidità nella recitazione. Io non esisto più devo iniziare tutto da capo.
Dal biancore generale si passerà al giallo del fondale nel secondo atto svolto quasi interamente attorno ad una lavatrice in funzione. Il rumore dei panni che girano aumenterà quel senso di stare più che di Essere dentro una casa con le cose che la abitano. Gli oggetti, le “cose” di uso comune sembrano creati apposta per dialogare con le interpreti: l'armadio rimasto chiuso e in secondo piano nel primo atto, diverrà nel secondo l'oggetto dominante, dialogo tra dentro-fuori, tra ordine e disordine.
Una figlia, Federica, perennemente in pigiama darà l'idea di prigionia dentro la casa senza vittimismo, nonostante non si senta considerata dalla madre depressa. Tutta la seconda parte è predominata dal personaggio della Nonna che per tentare di risvegliare le altre due dal torpore e dalla tristezza percuote la figlia con le spighe  rincorrendola sotto al palco, metafora del tentativo di metterla in contatto con il mondo esterno che in questo caso è il pubblico stesso. Tutto è noia o tragedia.
Nel terzo atto siamo dentro ad una luce psicologica. Il blu investe il fondale.
Ancora una volta si assiste al ribaltamento dei ruoli: figlia-analista nevrotica. I dialoghi sono monologhi dal lessico alto, un flusso di coscienza che scorre veloce e immobilizza l'occhio dello spettatore quasi ipnotizzato da quel flusso ininterrotto. Mentre la figlia dialoga con se stessa, la voce in climax salirà e calerà di volume a significare il turbamento psicologico che la investe. Anche la gestualità di Daria cresce quando alza la voce.
Ogni parola è calcolata tra tono di voce e posizione corporea. I fogli dell'analista che cadono per terra senza mai staccarsi l'uno dall'altro, un inconscio balordo che si domanda la causa di tutta questa tristezza.
Ci sono domande senza svelamento di risposte. Non potendo ottenere ciò che vuole, vuole ciò che può ottenere.
Nell'ultima scena il pathos decresce, l'analista è tornata figlia di ritorno dall'università. Il tempo è passato.
Attorno ad un lavello, sempre in funzione, si dispiega il primo vero dialogo tra madre e figlia, c'è comunicazione tra le due donne. L'armadio diventa credenza, la madre lava i piatti in modo ossessivo ma il suo animo sembra essersi placato.
Il delirio è terminato, il dialogo non si sovrappone e la scena diventa quasi comica per la caratteristica di realismo che possiede.
Lo spettacolo termina con una domanda della madre: “quanto ti serve?” D'altronde l'intera rappresentazione è un flusso di domande, di enigmi dell'animo non quietati, non svelati. La luce si spegne repentina al termine della domanda e il pubblico capisce subito che nonostante la fine brusca, questo era l'unico modo per stemperare il clima teso e profondo che si era creato durante l'intero spettacolo. Tre ore dense di parole, una rappresentazione che riesce a toccare corde nascoste di un pubblico che si accende di applausi appena cala il buio della scena.

Recensione di Alessandra Benedetti

Spettacolo di Lucia Calamaro in tre episodi (Donna melanconica al frigorifero/Certe domeniche in pigiama/Il silenzio dell'analista), L'Origine del Mondo – Ritratto di un interno descrive la vita di tre generazioni di donne (figlia, madre e nonna) a confronto e davanti alla realtà quotidiana contemporanea fatta di fragilità e problemi.
Federica (Federica Santoro), la figlia, è un'attrice dai capelli neri, alta e slanciata, vive con la madre Daria (Daria Deflorian) e non ha vita sociale con i suoi coetanei; passa le giornate chiusa in casa a sviscerare l'esistenza sui problemi che attanagliano la madre, una giovane donna malata di depressione, che ha tagliato i ponti con l'esterno e ha fatto di quattro pareti di una casa tutto il suo mondo.
Con la sua malattia la madre influenza la vita della giovane, non solo con lunghe ed estenuanti digressioni sul male di vivere, ma anche spezzandole la libertà e la spinta a conoscere, tipica della sua tenera età.
I tre episodi sono un alter ego della fragile identità della madre Daria: essi ruotano intorno, e unicamente, alla sua vita.
Siamo in un interno, è buio e la stanza è rischiarata dalla sola luce del frigorifero: Daria apre l'elettrodomestico più volte per farsi luce e cercare da mangiare, una fame atavica ed esistenziale che le toglie la quiete dell'animo. C'è con lei la figlia; le due discutono animatamente, spesso battibeccando.
Il frigorifero rappresenta l'intera esistenza delle due donne: esso è  un contenitore di cibo ma anche è custode segreto del vizio (le sigarette), e nel freezer persino il dentifricio e lo spazzolino per lavare i denti. Daria e Federica non hanno bisogno nemmeno di cambiare le quattro mura, la loro vita è inquadrata in una stanza plurifunzionale.
Unica uscita di Daria è andare dall'Analista che in questo interno è incarnata dalla stessa figlia cosicché conversazioni madre/figlia/strizzacervelli si intersecano e si sovrappongono in modo sempre meno scindibile e distinguibile le une dalle altre: dovendo sostenere questo doppio ruolo, l’attrice gioca con la mimica attraverso la potente arma del trucco e nel momento in cui “si trasforma” cambia espressione del viso (occhi chiusi) e camminata (strascicata).
Nel secondo episodio cambiano alcuni elementi sulla scena (siamo di fronte alla lavatrice, che gira, e ad un armadio pieno zeppo di abiti): ecco che entra un terzo personaggio, la nonna Daniela (Daniela Piperno): per contrasto, Daniela è una figura forte, carattere deciso e punto saldo della famiglia; faro nella notte, è lei che cerca di tirar su la figlia Daria, di svegliarla dalla  “sonnolenza” a cui la malattia inevitabilmente la costringe. Lei è la bussola di casa, una donna minuta e con tacchi alti, una nonna “moderna”, esperta della vita, vitale riferimento anche per la nipote.
Daria vuole uscire di casa (come dalla sua esistenza), ci prova, ma non ci riesce: non trova la sua borsa bianca, la cerca ma la domestica ha riposto tutto in ordine nei cassetti dell'armadio, e lei si sente persa nell'ordine delle cose, ha bisogno del caos per avere pace.
Nel terzo e ultimo episodio, infine, è incentrato sulle sedute di Daria con la psichiatra, che si fanno sempre più frequenti: in realtà, la Madre vorrebbe chiederne una pausa, un time-out ma non riesce, non viene ascoltata. Nella comunicazione con l'Analista  non esiste un vero e profondo dialogo, Daria rimane inascoltata, come lo è nella vita dal marito, da sua madre Daniela, e dalla stessa figlia.
Una malattia che rilega la vita di una donna alla non comunicabilità del suo mondo: Daria è una donna che si nutre di piccoli frammenti di socialità (una fra tutte, ascoltare le conversazioni della gente al supermercato), il marito è spesso nominato ma mai presente; con sua madre Daniela non ha mai stretto una vera relazione profonda, le due donne sono lontane anni luce, due caratteri opposti.
Infine, la figlia Federica prova più volte a capire la madre Daria, cerca di assecondarla e riprenderla con le buone, ma è una falsa comunicazione: c'è un mare di parole, ma non una vera comprensione, non si riescono mai a capire, e spesso Daria si chiede come Federica possa essere sua figlia, così diversa, così “sveglia” rispetto a lei.
In tutto lo spettacolo, ma soprattutto nel primo episodio, c'è un'insistenza particolare sul valore simbolico della luce: l'energia elettrica che produce luce, e quindi vista, grazie all'elettrodomestico, è anche l'unica fonte di calore nel freddo interno.
Le musiche sono del tutto assenti; i silenzi sono vinti con la parola (dialogo o monologo che sia) ma comunque mai un minuto di calma, di riflessione e  meditazione: la parola abbonda ed emana ansia, incalza, è onnipresente e riempie  tutto lo spazio, fin quasi a straripare.
Una commedia esilarante, vincitrice del Premio UBU 2012 per la ricerca drammaturgica di Lucia Calamaro, per la miglior attrice Daria Deflorian e miglior attrice non protagonista Federica Santoro, ha riscosso molto successo in tutta Italia negli ultimi quattro anni: Lucia Calamaro, autrice, attrice e regista dello spettacolo, proviene da una formazione sperimentale francese e ha lavorato in America Latina dirigendo una compagnia.

Recensione di Giulia Stella

Venerdì 21 febbraio al Teatro di Cascina è andato in scena L'origine del mondo,ritratto di un interno ,scritto e diretto da Lucia Calamaro, con Daria Deflorian, Federica Santoro e Daniela Piperno. Lo spettacolo è suddiviso in tre episodi, scanditi da brevi intervalli: Donna melanconica al frigorifero, Certe domeniche in pigiama , Il silenzio dell'analista.
La scenografia si presenta priva di forza creativa, è un interno di una casa in total white , uno spazio spoglio con solo pochi elettrodomestici color pastello. Nella casa vivono la madre Daria , Daria Deflorian , donna della upper class romana schiava della depressione e prigioniera delle mura domestiche e la figlia , Federica Santoro, vittima innocente che urla la sua continua  richiesta d'amore; c'è inoltre l'intrusione in alcuni momenti di un altro personaggio come la nonna, Daniela Piperno, o dell'analista interpretato sempre dalla Santoro che come in un attacco di schizofrenia si trasforma da figlia ad analista; i maschi della famiglia rimangono esclusi, citati solo in alcuno discorsi delle donne. Nel primo episodio è presente in scena solo un frigorifero che costituisce l'unica fonte di luce sul palco. Davanti all'elettrodomestico, scrigno del cibo mangiato per noia, vediamo Daria ormai rassegnata alla sua esistenza e alla sua apatia interiore; non sa che cosa vuole e non riesce neppure a cercarlo. Esplora  all'interno del frigorifero: una marmellata, una salsina, una mozzarella ; qual è il significato? Una ricerca disperata di qualcosa nella sua vita, uno stimolo, un valore, una risposta; esigenza che non la fa neppure dormire. Nel secondo episodio vediamo in scena una lavatrice che Daria non riesce a far funzionare, altra metafora forse della mancata voglia di vivere e reagire della protagonista. Neanche l'incitamento ipercritico della madre (Daniela Piperno) riuscirà a smuoverla dalla sua condizione. Daniela Piperno smuove la linea piatta che si era creata in scena, con voce squillante, carattere energico in continuo movimento sul palco, il suo personaggio prova a scuotere la noia di quella casa tanto triste. Nel terzo episodio la scena si apre con lo studio dell'analista e il dialogo tra Daria e l'analista; nella parte finale si vede un lavello, unico modo per Daria di far ripartire la sua vita ora che anche la figlia, lo si capisce dall'interazione dei due personaggi, ha lasciato casa per vivere da sola. Onnipresente nei tre atti la figura dell'analista, come se fosse un fantasma che infesta la casa, che vorrebbe assorbire ed eliminare le ossessioni di Daria. Lucia Calamaro con le sue tre ore di spettacolo vuole far viaggiare lo spettatore all'interno di una mente alla ricerca disperata di un senso e di pace. Mette in scena relazioni familiari non facili, situazioni sempre in bilico tra la distruzione ed un nuovo inizio, apatia, non dialogo ma anche la voglia di ricominciare proprio come tenta di fare Daria.

Recensione di Valentina Lupi

Con lo spettacolo L'origine del mondo - ritratto di un interno, Lucia Calamaro, insieme a una straordinaria interpretazione di tre attrici: Daria Deflorian, premiata come miglior attrice con il premio Ubu 2012, Federica Santoro, premiata ex aequo con l’Ubu 2012 come migliore attrice non protagonista, e Daniela Piperno, mettono in scena uno spettacolo che si trova proiettato in un mondo dove ciò che si vede non è sempre ciò che è; dove le relazioni rappresentate sono molto più complesse di quello che sembrano. In tutto ciò lo spettatore diventa parte dello spettacolo, perché non può rimanere indifferente; viene lentamente risucchiato in un vortice di pensieri, parole, paure e risate.
Nel primo episodio, la scena iniziale è al buio. Daria, donna borghese elegante, con un vestito color crema e uno chignon biondo, si dirige davanti al frigorifero. Grazie alla luce dell'elettrodomestico, che la donna ha aperto, riusciamo a vedere in scena anche sua figlia Federica. La bambina, anche se è tardi, legge il dizionario, per riuscire a capire alcune parole nuove, avendo da poco iniziato a imparare a leggere. Anche lei, come sua madre, ha un vestitino chiaro, delle calze rosa e delle scarpine bianche.
Il dialogo tra di loro è freddo, distaccato, ognuna è chiusa nella propria solitudine, nei propri pensieri, nel proprio mondo e non c’è modo di creare un legame tra questi due. Una volta sola si ritrovano insieme, unite da uno scopo comune: trovare qualcosa da mangiare nel frigorifero.
La patologia della depressione la fa da protagonista, con tutto il processo di psicanalisi che l’accompagna. La madre improvvisamente smette di parlare con la bambina e comincia a discutere con la Psicologa. Il medico in realtà, viene interpretato dalla stessa attrice che fa la figlia. Questo si intuisce perché cambia tono di voce, e poi inizia a recitare ad occhi chiusi, avendo le palpebre truccate con un trucco che rimanda a dei grossi occhi neri. La Santoro punta molto sul movimento delle mani e su quello della bocca.
Nel secondo episodio vediamo al centro della scena una lavatrice; il momento del lavaggio unisce figlia, madre e nonna. Quest’ultima inizia un discorso carico di lamentele contro la propria figlia, le sue abitudini, la sua paura di uscire di casa, chiusa in un isolamento sentimentale che la trascina lontano dal mondo sempre di più. La nipote, ora diventata maggiorenne, invece ha ancora una possibilità. Intelligente e brillante, il suo unico ostacolo è la paura del mondo, e il timore di non sapere cosa può incontrare fuori dalle mura di casa. La nonna, anche se ha un'aria molto seria, è la protagonista più comica delle tre, capace di far ridere lo spettatore con battutine e atteggiamenti spassosi.
Il terzo episodio racconta il confronto tra la madre e la sua terapista; nella scena abbiamo una sedia rossa, dove si siede la paziente, mentre sulla destra c'è la terapista che prende posto di fronte alla sua scrivania. Quello che dovrebbe essere un rapporto basato sul dialogo,si trasforma in un ripetitivo incontro settimanale, fatto di parole vuote, di mancati confronti, di sentimenti nascosti; nella parte finale la scena si sposta nella casa della madre, che è intenta a lavare dei piatti nel lavello. Entra in casa sua figlia e cominciano a parlare, la madre sembra meno depressa rispetto ai due episodi precedenti. La figlia è cresciuta e ora va all'università ed è venuta a trovare sua madre, dopo aver dato un esame.
La Calamaro, con questo spettacolo, fa vedere la visione bruta della vita. Un universo annoiato e inalterabile, incapace di agire. Una indagine accurata e cruda di un’origine del mondo che ha inizio dalla famiglia.

Recensione di Laura Sestini

La luce proveniente dall’interno di un frigorifero aperto taglia trasversalmente tutto il palcoscenico. La penombra  avvolge il resto ad indicare la notte. Due donne, madre e figlia, vagano insonni in cucina alla ricerca di un po’ di sollievo. Daria Deflorian, la madre, scandaglia il cibo del frigo con l’illusione di una soddisfazione notturna. Federica Santoro, la figlioletta che da poco ha imparato a leggere, parla di quello che le passa in testa, pone alla madre molte domande ma non riceve risposte. Daria vuole essere lasciata in pace nella ricerca del suo ”boccone di piacere”. L’Origine del mondo si snoda in tre lunghi episodi di elucubrazioni mentali  e discorsive sul perché e il come dei noiosi  gesti quotidiani.  Daria/madre è in terapia dallo psicanalista alla ricerca del perché del  suo “non essere” . Federica  interpreta la figlia e anche la figura dello psicanalista. I tratti del viso sono truccati in modo da ricordare un  clown, un personaggio irreale. Le due donne sono abbigliate in una mescolanza di ciabatte da casa, cappotti contro il freddo notturno e abiti eleganti. L’insonnia è imprevedibile, ti porta fuori dalle abitudini. Parlano incessantemente tra loro in un dialogo curato nel lessico e contrapposto alla banalità degli argomenti, spesso insensati. A cadenze  regolari entra in campo Federica/psicanalista a spiegare le dinamiche  della vita, del malessere, del non essere, del non sentirsi più. Uno spettacolo in divenire, spiegano le attrici, all’incontro con il pubblico, nato dal lavoro fianco a fianco di drammaturga, Lucia Calamaro, e attrice, anzi uno spettacolo nato senza testo,  che ha atteso due anni per auto-completarsi. Ad ogni rappresentazione si aggiungeva qualcosa, qualche battuta, fino alla versione definitiva.  Dai venti minuti del debutto alle tre ore di recitazione portate in scena al Teatro stabile di Cascina venerdì 21 febbraio . Tre atti, ognuno di un’ora, che affrontano la difficoltà della vita interiore. Gli elettrodomestici, il frigorifero prima, la lavatrice poi ed infine il lavello,  abitano un palcoscenico di grandi spazi vuoti. Sono protagonisti, tutto ruota intorno a loro. Si cerca il cibo, si fa il bucato e ci si sente al sicuro,  confortati dai suoni familiari che emettono. Lo spettacolo mette a nudo una vita casalinga dove si butta giù la maschera e finalmente ognuno può rappresentare se stesso per quello che veramente è. “Il personaggio che interpreto non è un vero personaggio – risponde Daria Deflorian ad una domanda nell’incontro con il pubblico – di fatto sono io, anche se non di tutte le scene ho esperienza diretta.  Io non ho figli ma Daria vive un profondo senso di maternità e sono molto felice di avere Federica come figlia. Tutte le sere nello spettacolo ho una relazione con una figlia. La vivo davvero”.  “ Non sono personaggi  che si possono raccontare fuori dallo spettacolo – incalza Federica Santoro – perché le parole limitano, chiudono. Noi siamo delle funzioni che portano avanti un pensiero”. Nel  secondo atto i personaggi diventano tre.  Si inserisce Daniela Piperno, la nonna. Una nonna, nell’accezione archetipica. Un personaggio riconoscibile, più reale, più consistente nella personalità, che si preoccupa di spronare la figlia  a vivere un ambiente sociale, che chiede a Federica se ha un fidanzatino.  Una nonna “normale” che non disattende il suo ruolo classico, un personaggio positivo che affronta la vita con passione, privilegiata dall’innata ironia. Evocati, ma inesistenti fisicamente, i personaggi maschili. Nell’’ultimo atto i silenzi regnano sovrani e si lasciano parlare i gesti. Un insieme di pensieri, monologhi interiori, dove si intrecciano i propri dubbi, i limiti personali, il male di vivere, la non comunicazione. Un quadro familiar-casalingo che riflette la società intera dove l’individuo è concentrato su se stesso, dando scarsa importanza ai rapporti sociali, rinchiuso nelle proprie frustrazioni  di una crescente solitudine.

Recensione di Matilde Francesconi

La scena si apre con un frigo e una donna; lei lo apre, inizia a mordicchiare quello che è all'interno in una ricerca continua, per un attimo ci si domanda se siamo a teatro, se è vero quello che vediamo, ebbene sì,  questo spaesamento è una delle caratteristiche che lo spettacolo,  Le origini del mondo - ritratto di un interno, ci mostra.
Tre donne in un interno, un interno mutevole, la prima scena Donna malinconica al frigorifero ci catapulta nella realtà dello spettacolo: troviamo Daria (Deflorian) e Federica (Santoro), madre e figlia, alle prese con conversazioni di tutti i giorni; la noia attanaglia la vita della madre. Le ansie regnano sovrane, poi ecco che quando la figlia chiude gli occhi, prende voce la maschera di un clown, una spietata analista, che non coglie gli aspetti del dolore di Daria, e le sue insicurezze  trovano consolazione solo nell’ infinito “apri e chiudi” che si compie al frigorifero, alla ricerca di qualcosa di ignoto, che una volta trovato appagherebbe per un po' l'anima.
Secondo interno: Daria, Federica e Daniela (Piperno), la nonna, tutte alle prese con una lavatrice, in Figuranti del dolore al lavatoio, madre e figlia in pigiama, a trascinarsi per casa senza riuscire a fare neanche una lavatrice. La nonna, la voce della realtà , prova a scuotere la figlia invitandola ad uscire, a sorridere e a smettere di analizzare tutto, soprattutto le cose più insignificanti, c'è un tentativo di rivalsa, di mettersi in gioco, ma Daria o non trova gli oggetti, nascosti dalla cameriera, o presa dallo sconforto dell'ora tarda non riesce a uscire di casa, il fallimento la porta sempre più a disperarsi, come quello conclusivo della lavatrice che si è forse guastata e il pavimento si è bagnato. Mentre Daniela, in un monologo-inno allo straccio per pulire, fa capire che la differenza fra loro due non è poi così grossa.
Il silenzio dell'analista, ultimo quadro, porta in scena un dialogo muto fra Daria e Federica, nei panni adesso esclusivamente dell’analista, tra le due non c'è coesione, ognuna parla del superfluo: “si sieda”, “tutto bene”, “vuole una sigaretta?”. Tuttavia non si parla delle emozioni, ognuna in un flusso continuo in stile Joyce, sviscera i propri sentimenti, ma fra loro non si sentono, l'inutilità di un rapporto quando non si ascolta la voce dell'altro, fino a ridurre il discorso ai miseri convenevoli. La scena cambia ulteriormente e termina con Daria e Federica, ormai studentessa universitaria, che mentre lavano e asciugano i piatti, parlano della vita, Daria sembra stare meglio, anche se ormai tutti quei dubbi, tutte le ansie che l'hanno sempre circondata, sono entrati a far parte di lei, mentre Federica sembra aver preso un distacco dalle forti pressioni che la madre le ha sempre scaricato, ma non  ne siamo mai certi.
La commedia è magistralmente scritta e diretta da Lucia Calamaro, che analizza l'ambiente borghese con occhio critico e psicanalitico, arrivando a divertire e commuovere nello stesso tempo. Nonostante le 3 ore di durata dello spettacolo, il tempo passa velocemente.