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Al suo terzo appuntamento la rassegna “Cinque produzioni speciali”, dedicata dal Teatro Stabile di Genova alla drammaturgia contemporanea, si confronta con questo convincente lavoro del newyorkese Tony Kushner, in scena al Duse dal 27 novembre al 4 dicembre

Nella versione italiana di Gian Maria Cervo e Francesco Salerno, e per la bella regia di Massimo Mesciulam che ne svela e padroneggia con efficacia i raffinati meccanismi narrativi, vede impegnati con esiti interessanti di sostanza recitativa Alice Arcuri, Fiammetta Bellone, Maurizio Lastrico, Andrea Bonella, Michele Maganza, Matteo Alfonso, Francesca Masella, Maria Grazia Pompei e Silvia Quarantini. Scenografia e luci, come di consueto per questo ciclo di rappresentazioni, rispettivamente di Guido Fiorato e Sandro Sussi. Giocato sulla contrapposizione e sull'intersecarsi nella contemporaneità della scena di due diversi piani temporali, gli anni 30 nella Berlino del tramonto di Weimar e dell'avvento del nazismo e gli anni 80 nell'america del reganismo trionfante, la drammaturgia enfatizza efficacemente un effetto di alienazione critica che, pur non privando lo spettatore di una intenso coinvolgimento emotivo, ne pone in evidenza la capacità di approfondimento ed indagine, a conferma, ove ce ne fosse bisogno, dei legami che contaminano e hanno contaminato l'esperienza brechtiana e la moderna drammaturgia statunitense. Nell'america anni 80, dunque, una giovane intellettuale ebrea, che pare sussumere in sé la funzione di un coro monologante, proietta la propria esperienza politica ed esistenziale articolandola nel racconto delle vicende di protagonisti e testimoni del crollo della utopia rivoluzionaria nella Germania democratica di Weimar, testimoni e protagonisti che assistono, sempre più impotenti nei loro inefficaci strumenti critici e di indagine, al prevalere del nazismo. Su questo racconto la narratrice-coro costruisce dinamiche di senso che scoprono, o tentano di farlo, i meccanismi di quella stessa impotenza sottratti quasi alla loro contingenza storica o sociale (le contrapposizioni sorde e suicide tra comunisti e socialdemocratici con la conseguente perdita di comprensione e incidenza sul proletariato), ovvero esistenziale (la ricerca di un ruolo e di una identità nella e non per la rivoluzione), e così li proiettano in un umanesimo senza tempo, atterritto e sorpreso dal fatto che la forza del male (il diavolo di faustiana evocazione che irrompe ironico in scena) stia nella sua ordinarietà, cioè nella sua 'banalità'. È un discorso complesso e ampio ma, nell'intersecarsi di identificazioni e riferimenti a più significati, raccontato, come consueto e tipico della forza espressiva della drammaturgia nordamericana, in maniera 'semplicemente' articolata, ove la forza dell'ironia irrompe con naturalezza senza rendere nulla scontato, naturalezza che si può riassumere nella citazione brechtiana che Hannah Arendt pone ad exergo, appunto, del suo La banalità del male, e che ripropongo : “O Germania – udendo i discorsi che risuonano dalla tua casa si ride. Ma chiunque ti vede dà di piglio al coltello.” Ecco dunque che la vera protagonista del dramma non è l'umanità che si traveste di ruoli e di missioni, spesso coltivandovi la propria ipocrisia, ma l'umanità semplice che rimane in mezzo alla tragedia e non fugge perchè ha finalmente trovato un appartamento che gli piace e ad un contratto di fitto conveniente. L'umanità che assiste alla tragedia, confessa la sua debolezza e l'incapacità a contrastarla, che forse si chiama fuori, ma quando la tragedia finisce è lì, dove era prima, con la forza di ricominciare. Spettacolo 'politico' nel senso più alto del termine, spettacolo civile e militante insieme, questa dunque è una drammaturgia che interroga, che si interroga se attribuire l'assolutezza del male al nazismo non ci induca a sorvolare su mali che appaiono minori (“quale è la percentuale di nazismo per cui uno può essere definito nazista?”), e che infine ci interroga, perchè la risposta non può che venire da noi. Spettacolo 'politico' che va oltre i pur evidenti riferimenti al presente dell'autore e, purtroppo anche della nostra attualità, per iniziare un comune discorso sul potere che, appoggiandosi proprio alla debolezza dell'esistente, si costruisce nelle forme peggiori della tragedia e, a volte, della farsa becera. Il pubblico genovese in questo esordio sembra averlo capito per il calore dimostrato alla chiusura del sipario, credo che continuerà a dimostrarlo anche nelle prossime repliche.