Propongo ai lettori alcune riflessioni, in apertura della stagione teatrale romana 2009-2010, dopo aver partecipato da spettatore, a volte osservatore partecipante, ad alcuni spettacoli. In particolare, la mia attenzione è rivolta alla “parola” in scena, anche perché “provocato” a farlo proprio da essi spettacoli, e precisamente: Orô di Otello, con attore/danzatore Augusto Omolù, regia di Eugenio Barba; Il castello di Holstebro II, con Julia Varley, testo di Julia Varley ed Eugenio Barba, regia di quest'ultimo; Flatlandia, lettura drammatica e musicale di Chiara Guidi (Societas Raffaello Sanzio); Alla meta, di Thomas Bernhard, diretto e interpretato da Teatrino Giullare; Sole, di e con Valentina Capone: questi spettacoli hanno fatto parte della settembrina rassegna internazionale (Maestri Avanguardie Derive) organizzata da Lorenzo Gleijeses, che ha aperto la stagione del rinnovato teatro Quirino di Roma, diretto ora da Geppy Gleijeses.
A queste realizzazioni aggiungo: La bicicletta di Stanislavskij, di Rosario Galli (collaborazione di Alberto Bassetti, da un'idea di Franco Ruffini), regia di Giancarlo Sammartano, con, tra gli altri, Emanuele Vezzoli e Michele Carli; e infine Epistola ai giovani attori, di Olivier Py (direttore dell'Odeon di Parigi), diretto da Giorgio Barberio Corsetti e interpretato da Filippo Dini e Mauro Pescio. Questo elenco un po' sommario di spettacoli ha valore per me, in questa sede, in quanto ciascuno di essi mi ha spinto a riflettere proprio sulla presenza della parola a teatro, dove si attua una dimensione comunicativa e, quando lo è, di comunione, tra scena e spettatori. Lo tratto, quindi, come un micro campione di spettacoli che, magari fortuitamente, o chissà?, provocano appunto una pausa riflessiva sulla drammaturgia scritta e sulla parola teatrale.
Poniamoli in successione mettendo a fuoco solo l'aspetto drammaturgico con descrizione schematica:
Orô di Otello: presenza sporadica di parole del tutto slegate dalla storia di Otello, in funzione o di commento o di intima esternazione da parte del danzatore brasiliano, con citazioni musicali dalla partitura verdiana;
Il castello di Holstebro: flusso verbale monologico, realizzato come una vera e propria azione fisica, secondo la scuola dell'Odin;
Flatlandia: parole originariamente in forma narrativa, dal racconto fantastico “a più dimensioni” di Edwin Abbott;
Alla meta: testualità drammaturgica compiuta, facente parte del repertorio drammatico europeo del '900, per un teatro di tradizionale impianto e rap-presentativo;
Sole: flusso verbale monologico senza una coerenza “narrativa”, in stretto rapporto con il linguaggio di scena praticato dall'interprete, con andamento sia prosastico sia versale;
La bicicletta di Stanislavskij. copione costruito in “quadri”, come drammaturgia di secondo grado che si rifa a materiali preesistenti (il racconto di Bulgakov, Romanzo teatrale, e vari brani citati da Stanislavskij stesso);
Epistola ai giovani attori: testo squisitamente metateatrale (come d'altra parte il precedente), che alterna passaggi monologici a dialoghi rapidi e serrati tra il personaggio-attore ed altri personaggi emblematici del mondo teatrale.
Dalla parola quasi assente, a quella presente come un qualsasi altro codice espressivo della scena, alla parola strutturata in testo organico e compiuto, il campione presenta una gamma completa di varie forme drammaturgiche, come d'altra parte sta accadendo in scala maggiore un po' in tutti i teatri d'oggi: ebbene, credo dunque che sia ancor più necessario oggi tralasciare la definizione di genere “teatro di parola”, per riflettere senza l'urgenza di apodittiche risposte circa la “parola di teatro”, o “a teatro” o “nel teatro”. Credo che questo passaggio possa chiarire alcune intrinseche ragioni sulle quali la stessa scrittura drammaturgica acquista un'autentica necessità, sia nel suo essere linguaggio, sia nel suo essere precipuamente “teatrale” (e teatralizzata). Direi di più: si tratta anche di considerare il teatro proprio un laboratorio per l'esercizio della parola autentica. E proprio in questo senso va il testo di Olivier Py, Epistola ai giovani attori, che invito a leggere (Editoria & Spettacolo, Roma 2004), il cui sottotitolo afferma: Perché sia resa la parola alla parola. Ma cos'è la parola in teatro? In che senso è autentica? In che modo è necessaria?
La parola in teatro è simbolica, inevitabilmente, poiché è detta, facendosi azione fisica (in quanto oralizzata attraverso la phisis attorale), in un contesto “finto” (non falso), dove si ri-fa la vita, la si ri-crea, per forza poetica: se la parola a teatro vuole “essere” solo parola della vita, allora cerchiamola nel “mondo della vita”, in quelle rare occasioni in cui c'è una rivelazione poetica (a tal riguardo si legga lo splendido testo della rubrica di Alfio Petrini nel precedente numero di dramma.it), se la parola a teatro vuol imitare la vita, è pura mimesi della vita, è un accessorio, un'aggiunta, è minimalismo e perde la sua carica significativa, comunicativa, simbolica. Quando dico simbolica, intendo polisemica, magari oscura, magari colma di non-detto, ma non nel senso del non-detto a livello psicologico, bensì a livello ontologico, in quanto la parola può non essere in grado di “dire” lo stesso mistero della Realtà: se dico “Dio”, questo è un simbolo in quanto nella comunicazione tra un io e un tu (così nella vita come a teatro, dove il tu sono sia i personaggi ascoltanti, sia lo spettatore stesso), Dio non può essere sostanzializzato, non può essere de-terminato, de-finito, avrà significato simbolico proprio perché la parola Dio può avere più significati, a seconda di chi la pronuncia e di chi l'ascolta.
La parola a teatro quindi, ancor più che nella vita, con tutti i suoi condizionamenti, può risultare autentica perché può sottrarsi a due terribili condizionamenti a cui è sottoposta nel mondo d'oggi: uno è il suo determinismo tecnoscientifico, che la fa essere “quella”, che gli fa significare solo “quella” cosa, come in una qualsiasi formula matematica o chimica, cosicché perde ogni alone di concretezza vitale, di forza metaforica, di risonanza sentimentale; l'altro condizionamento è la falsificazione a cui è sottoposta nel grande villaggio globale e globalizzante, un “foro” dove ogni discorso finisce per essere svilito, conformato, asservito, convenzionale: la globalizzazione è uno dei totalitarismi odierni, assieme alla tecnoscienza, che annulla ogni nostra concretezza personale, ogni originaria tradizione specifica e particolare. A teatro la parola invece può autofarsi, autodivenire, autodeterminarsi, non eterodiretta, se non dalla libera dimensione comunicativa e di “comunione” che viene a liberamente costituirsi nel “fra” che unisce attori e spettatori, vivendo davvero una sua autenticità e compiutezza, potenzialmente decondizionata dalle rigidità della realtà sociale.
La parola a teatro diviene necessaria quando esprime tutto il senso del suo essere una promessa, un giuramento, un'azione sacramentale, un grido spontaneo, un voto, un impegno, una fedeltà, anche un rischio, una rivelazione; ed è per tali possibilità da raggiungere che il drammaturgo è obbligato ad ancorarsi ad un suo “fondo” autobiografico, affinché le parole che gli sgorgano siano davvero dense, vissute, radicate in se stesso, prima di collocarsi, nella loro “pienezza” di senso, nel contesto fittivo-simbolico della scena e del teatro. Tante altre opzioni sono solo questioni di stile, di poetiche, di gusto estetico, e appunto di “genere” (il genere “teatro di parola”), credo invece che sia necessario riflettere sulla “parola del teatro”, o “a teatro”, sapendo che non è possibile mettere un punto alla nostra ricerca: la realtà e il teatro che totalmente la ri-fà per via poetica e immaginativa, non possono certo obbedire a schematismi di pensiero: la realtà e l'intuizione poetica del teatro possono sempre mettere in scacco, superare, sgambettare, le nostre astratte e idealistiche griglie di pensiero, le nostre pre-convinzioni logiche (come il nostro “padre” Pirandello ci dimostra): il logos deve venire a patti con il mythos, il racconto, che facciamo del nostro cammino esistenziale, il quale è sperabile sempre che possa modificarsi, e attuare una metanoia verso una vita umana più vera, più piena, più aperta, attraverso e oltre il nostro bios, e il nostro ego, alla Vita, a quella che i nostri progenitori greci intuivano come Zoè.