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Al Teatro della Cooperativa, in prima nazionale, si fanno due calcoli, si snocciolano, cifre, lunghi elenchi di oggetti, si va a picco nella notte del 14 aprile 1912, insieme a Giovanni Pastore. A vent’anni Giovanni Pastore lascia le sue pecore, i suoi monti in Friuli, in cerca di lavoro, trascorrerà alcuni anni in giro per l’Europa, cercando di imparare il Francese e il Tedesco per poi finire a lavare cucchiaini sul transatlantico inaffondabile: addetto ai cucchiaini del ristorante à la carte. “Giovanni non avrebbe mai dovuto lasciare la sua mamma”. Morirà insieme agli altri passeggeri di terza classe.  “The Great Disaster”, di Patrick Kermann  il grande disastro, non è la storia di un disastro, ma la voce di tutti quei migranti che si perde nelle onde dell’indifferenza di chi si dimentica della loro esistenza, il racconto della loro perpetua navigazione fra i tanti iceberg della vita. The Great Disaster (tragedia marittima di 2.201 personaggi e 3.177 cucchiaini) è la narrazione di un rituale di morte, in cui la comunicazione diventa desiderio di scoprire la verità e l’aldilà. Sul palco, viaggiano e affondano inesorabilmente anima e corpo, immateriale e materiale, visibile e invisibile, i fantasmi fanno rivivere la parola morta della carta stampata. Nella sua ultima intervista, cinque giorni prima di suicidarsi, Patrick Kermann dichiarava: “Dagli antichi greci fino ai giorni nostri, passando da Shakespeare, dove gli spettri non sono da meno, il teatro è per essenza un’arte della morte, l’arte di far parlare i nostri morti”. Tutto emerge dal regno dei morti: la superficialità di chi governa le vite degli altri, la stupidità dei ricconi, la cattiveria degli amici d’infanzia, la mano di Cecilia, unico tenero amore infantile, e la nonna annegata nella fontana della piazza. Nella scelta accurata delle luci e nell’allestimento scenico, Luca Grimaldi e Marco Mosca, danno vita al ventre del Titanic a quello più povero, all’inferno della terza classe, lampade, cucchiaini, pentole, coperchi, strofinacci, sospesi sulle onde. Nel disegno della regia di Renato Sarti, corpo e voce e regalano variazioni sul tema. L’interpretazione di Matthieu Pastore (autore anche della traduzione) è sognante e precisa nelle sfumature; come in una parabola storica, il tempo trascorre in un contesto arricchito dai numerosi segni della regia. Anche se in alcuni momenti il racconto tende a ripetersi e diviene meno concitato. Il ritmo della rappresentazione, dipende dal rapporto equilibrato che si stabilisce tra parola e segni non linguistici, la dominazione dell’uno o dell’altro, rallentano i ritmi e la tensione. L’orecchio e l’occhio ne risultano soffocati. L’equilibrio a teatro è il fulcro della rappresentazione artistica. Il complesso lavoro mitico di Renato Sarti, si basa su un sistema di segni che richiama il sistema degli oggetti divenuti nuovi idoli, nella nostra società globalizzata, dominata dal liberalismo politico ed economico, dal capitalismo finanziario, una società che spesso soffre di amnesie: tende a rimuovere, dimenticare, i numerosi cittadini di terza classe. Allora la regia ci indica alcune vie possibili da seguire insieme, per non affondare: il dubbio, la conoscenza, il rispetto di tutte le esistenze.
Milano, Teatro della Cooperativa, 9 Maggio 2014